Due tra le più potenti canzoni italiane degli ultimi anni vengono da una band chiamata Teatro degli Orrori.
Gente veneziana dall’anagrafe per niente giovanile (il capobanda, Pierpaolo Capovilla, è classe ’68) questa indie band è un quartetto che ha firmato già due album nei quali ci sono quelle due canzoni che tutti, prima o poi dovrebbero aver modo di ascoltare: Maria Maddalena e La canzone di Tom.
La prima è una versione insolita e ipnotica di un incontro odierno con la peccatrice evangelica che in un qualche modo misterioso porta ancora dentro al suo cuore il sorriso del Nazzareno (“Non sei forse tu Gesù conosciuto anni orsono, dentro al cuore di una femmina, che con quel suo sorriso triste, ancora mi parla di te”). La seconda, il loro vero e poderoso capolavoro, è un brano pasoliniano dedicato a un amico-giornalista tedesco morto giovanissimo, tremendo coacervo di domande e distrazioni (“Hai sentito di Tom, Tom che se n’è andato via, questo non è uno scherzo, non è neanche una fantasia. Come ci illudi Tom, d’essere ancora tutti vivi, mentre guardiamo sempre dall’altra parte”).
Spigolosi e veementi, questi veneziani hanno lentamente occupato un posto scarsamente ambito nel nostro Paese, quello degli esistenzialisti rock, incanalandosi nella scia dei CCCP e dei primi Afterhours, dei Massimo Volume e in un certo senso dei Diaframma di Federico Fiumani, attenti alla poetica oltre che alla ritmica, mentre citano Majakovskji e i Velvet Underground, Nick Cave e Sartre.
Ora la band che ha rubato il proprio nome alle intuizioni ebbre di Antonin Artaud giunge al suo nuovo album, Mondo Nuovo, prendendo da Aldous Huxley il titolo del lavoro e dalla cronaca quotidiana una serie immensa di ispirazioni che va dalla guerra in Iraq (notevole ad esempio è Clevland-Baghdad: la morte nei paesi arabi vista dallo sguardo di un giovane marine) alle sofferenze di italiani e stranieri sul suolo dell’Italia bella, ma ormai non più compassionevole. Canzoni di forte impronta politica, rabbiose verso un’impossibile convivenza causa egoismo trionfante, ma anche canzoni – come sempre – dalla contrastata anche se fortissima radice cristiana (in Dimmi Addio: “voglio parlare con Gesu, voglio spiegargli che cos’è l’interland di Milano, gli voglio raccontare,senza giri di parole, bestemmiando forse, quanto mi sento solo, e quante cose vorrei”).
Cresciuto in una famiglia di devotissimi cristiani, Capovilla ha fatto propria la religiosità dei padri con verve e inquietudine personale, disseminando le sue canzoni di necessità urlate di senso, che quasi sempre partono oppure cozzano verso quel Gesù Cristo attorno a cui tutto ruota (ha detto recentemente in un’intervista: “Io sono un laico, ma non riesco a disfarmi degli insegnamenti profondi che mi hanno dato i miei genitori”).
Nell’ultimo disco, appena uscito, tra le altre c’è una canzone che entra subito nel circolo delle curiosità più autentiche: è E cerco te, il pezzo da cui la band ha tratto il suo videoclip promozionale. È un rock veloce come un brano dei Foo Fighters, con belle chitarre ruvide e invadenti, che parla d’amore, della ricerca di una persona fascinosa scomparsa nei meandri romani. È una ricerca ansiosa, senza sosta, disordinata: “Io cerco te, cerco te, nei week end, nelle lune piene, in ogni macchina che passa in via Togliatti, nei visi tristi, di gente stanca, di vivere così, negli appartamenti, dove nascondere, la voglia di andar via, il mondo nuovo, l’oceano”.
Solo dopo il break – un classico nella costruzione di Capovilla e del bassista e chitarrista Giulio Favero – emerge il perché di questa ricerca affannosa, inevitabile, obbligata: cerco te perché sei “qualcuno che sa bene, che è maligno il mondo, ma che nel cuore, in fondo, riconosce sempre, il bene, dal male, il bene, il male…”. Ecco perché cercarti e svenarsi in un inseguimento metropolitano, ecco la radice dell’attrazione, motivo ben più urgente di quello puramente estetico che è rappresentato dallo “spettacolo umano più bello, che mi sia stato dato, osservare da vicino”.
La radice dell’attrazione urgente e viscerale è in qualcuno che ha un cuore che riconosce il bene dal male. Donna, vecchio, bambino, bianco, nero, ricco, sbandato: chi non si dannerebbe per re-incontrare qualcuno che sa che maligno è il mondo e che nel suo cuore distingue il bene dal male?
Cuore, bene, male: da quanto tempo in una canzone non riemergevano gli attori della sfida che da sempre occupa grande letteratura e autentica poesia, musica autentica e profonda umanità? Da quanto tempo la canzone italiana (non che quella anglo-americana stia poi così meglio……) non riusciva a sfuggire alla domanda dominante, cioè “mi vorrai bene per almeno una settimana o mi lascerai dopo aver fatto sesso”?
Capovilla e i suoi, spigolosi e colti al punto giusto, sono riusciti a mettere insieme un progetto musicale che esce dal fastidio della noiosità quotidiana. E ci accompagna forse in un periodo rock in cui forse anche gli italiani sapranno risvegliare orecchie, cuori e domande. Alla faccia di Sanremo, X Factor e compagnia bella.