Non è un caso che la riforma Fornero (dl 92/2012) abbia riservato un’attenzione particolare al contratto a tempo determinato. Da quando il dlgs n. 368 del 2001 ne ha liberalizzato il ricorso, infatti, contro di esso si è scatenata una “guerra” politica, dottrinale e giudiziaria. Il fatto è che nel sistema giuslavoristico il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è storicamente considerato lo strumento più adeguato per realizzare il coordinamento del capitale umano con gli altri fattori dell’organizzazione produttiva. E ciò, con reciproco vantaggio delle parti, datore di lavoro e lavoratore.
È significativo, al riguardo, che mentre il Codice Civile del 1865 escludeva, per timore di creare situazioni di asservimento, il vincolo perpetuo nella prestazione d’opera, già la legge sull’impiego privato del 1926 considerava “normale” la durata indeterminata del contratto di lavoro. Questa impostazione trovò poi formale consacrazione nella legge n. 230 del 1962, per la quale “il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso (nella legge stessa) indicate”. Nel 1966 e nel 1970 il principio si saldò con la normativa limitativa del potere datoriale di recesso e la “stabilità” assicurata al rapporto di lavoro rese marginali gli spazi d’agibilità del contratto a termine. Ecco perché, quando nel 2001, abrogata la legge del 1962, il legislatore consentì l’apposizione del termine al contratto di lavoro in presenza di oggettive “regioni tecnico, produttive, organizzative o sostitutive”, da molti ciò fu considerato, e ancora lo è, un intervento diretto a “precarizzare” i rapporti di lavoro, come tale eversivo del sistema di tutele costruito attorno alla durata indeterminata del contratto di lavoro.
In realtà, la legge del 2001 non persegue un simile obiettivo e prevede al suo interno meccanismi e strumenti di controllo e, se mai, repressione dei possibili e, peraltro, inevitabili comportamenti illeciti. D’altra parte, l’allargamento dei margini di utilizzo di tale contratto risponde a esigenze reali del sistema produttivo, anche se a volte accentuate da rigidità e obsolescenze normative. Al netto di criticità superabili e a prescindere dai noti problemi congiunturali, pertanto, appare eccessiva e, sovente, ideologicamente connotata l’enfasi posta sull’effetto precarizzante.
Di principio, peraltro, neppure la legge Fornero si sottrae a quell’enfasi. A dimostrarlo è la riscrittura del co. 01 (sic!) dell’art. 1, dlgs n. 368: che il contratto di lavoro a tempo indeterminato “costituisc(a) la forma comune di rapporto di lavoro”, è formula ricalcata sull’art. 1, co. 1, lett. a), legge n. 92/2012, ove è ribadito in generale “il rilievo prioritario” di quel contratto, quale, appunto, forma comune di rapporto di lavoro. E in questa prospettiva si collocano le misure che riducono la convenienza del ricorso al contratto a termine.
Una prima è data dall’addizionale contributiva, pari all’1,4% della retribuzione imponibile a fini previdenziali, che, dal 1° gennaio 2013, graverà sul datore di lavoro per tutti i contratti a termine stipulati, eccezion fatta per le assunzioni in sostituzione di lavoratori assenti, per attività stagionali, degli apprendisti e dei dipendenti pubblici (art. 2, co. 28). L’aggravio è destinato a finanziamento del nuovo trattamento di disoccupazione (Aspi), ma il co. 30 ne prevede la restituzione, nei limiti di sei mensilità, in caso di trasformazione in contratto a tempo indeterminato ovvero di assunzione con tale contratto entro sei mesi dalla cessazione del precedente contratto a termine.
La più rilevante è quella che computa nel periodo massimo di trentasei mesi di cui all’art. 5, co. 4 bis, dlgs n. 368, anche i periodi di lavoro in somministrazione a tempo determinato per l’esecuzione di mansioni equivalenti nei confronti dello stesso datore/utilizzatore (art. 1, co. 9, lett. i). Come noto la disposizione citata considera a tempo indeterminato il rapporto di lavoro quando, per effetto di una successione di contratti a termine con lo stesso datore di lavoro e per mansioni equivalenti, siano complessivamente superati i trentasei mesi di lavoro. Dunque, decorso quel termine, il datore di lavoro non potrà continuare a utilizzare lo stesso lavoratore ricorrendo a contratti di somministrazione.
L’ultima riguarda l’allungamento del periodo di intervallo minimo che deve intercorrere tra due contratti a termine nell’ipotesi di riassunzione dello stesso lavoratore: i termini di dieci e venti giorni, rispetto al primo contratto di durata rispettivamente fino o superiore a sei mesi, diventano ora sessanta e novanta giorni. Peraltro, il dl n. 83/2012 ha modificato la disposizione, mitigandone il rigore con la possibilità per la contrattazione collettiva, in determinati casi, di ridurre a venti e trenta giorni quei termini.
Altre misure si muovono, per contro, nella direzione opposta, di ridurre, cioè, i vincoli alla legittima apposizione del termine al contratto. Quella di maggior peso è prevista dal comma 1 bis, inserito nell’art. 1, dlgs n. 368. La norma sottrae all’obbligo di giustificazione il primo contratto a termine stipulato con un lavoratore per lo “svolgimento di qualunque tipo di mansione”, purché la sua durata non superi i dodici mesi. In sostanza, si rende acausale il contratto a termine che venga stipulato per la prima volta con un dato lavoratore. La regola è estesa anche al primo contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato; nonostante l’incerta formulazione legislativa abbia già sollevato numerosi dubbi interpretativi la deroga al principio di giustificazione dovrebbe riguardare il contratto stipulato tra l’agenzia per il lavoro e l’utilizzatore.
Più in generale, neppure è chiaro se l’applicazione della regola sia inibita da precedenti rapporti di lavoro, non a termine, intercorsi tra il datore di lavoro e il lavoratore: secondo un’interpretazione ministeriale, la risposta è affermativa, ma l’opinione non è condivisa da altri. In ogni caso, il primo contratto non è prorogabile, anche se di durata iniziale inferiore all’anno, mentre è dubbia l’applicabilità della regola che consente la prosecuzione di fatto del rapporto entro limiti predefiniti. Anche con questi limiti, la norma realizza un’effettiva liberalizzazione del primo contratto a termine, quantomeno se stipulato con lavoratori nuovi.
Alla lett. e), del co. 9, inoltre, l’art. 1, l. n. 92/2012, estende il periodo in cui è consentita la prosecuzione di fatto del contratto oltre la scadenza del termine originario o validamente prorogato. Per i contratti di durata inferiore a sei mesi, ovvero decorsi i trentasei mesi di cui all’art. 5, co. 4 bis, il termini è ora di trenta giorni, mentre diventa di cinquanta negli altri casi. Peraltro, si prevede un onere di comunicare la continuazione del rapporto al Centro per l’impiego territorialmente competente, entro la scadenza del termine inizialmente fissato. Quest’ultima disposizione appare di problematica attuazione, poiché la prosecuzione di fatto è in genere collegata a situazioni non facilmente prevedibili o a erronee valutazioni prognostiche.
Se non tutte, queste sono almeno le principali novità introdotte dalla legge Fornero. Esse bastano a rivelare la natura compromissoria di un intervento stretto tra l’accennata enfasi ideologica e la forza dei fatti – il fatto contingente, ma non perciò meno pesante, di un sistema produttivo stremato dalla crisi e quello, invece, ormai strutturale del cambiamento dei modi e delle forme di produzione, come pure, sull’altro versante, il fatto della penalizzazione di tutti quei lavoratori che si vedranno precluse possibilità di lavoro pur discontinue – senza sapere o volere fare scelte chiare.
Il che, peraltro, più che sulla bontà delle singole soluzioni apre una domanda sull’adeguatezza delle opzioni di fondo del provvedimento.