Evviva la ripresa! Il Pil dei Paesi dell’area Ocse è cresciuto dello 0,4% nel quarto trimestre del 2010: lo rilevano le statistiche dell’Organizzazione rese note ieri. Si tratta del settimo trimestre consecutivo di crescita, ma segna anche un rallentamento rispetto allo 0,6% del terzo trimestre.
Nell’ultima parte dell’anno, l’Italia ha fatto registrare un +0,1%. Più in particolare, in Germania nell’ultimo quarter dello scorso anno il Pil è salito dello 0,4% (dopo il +0,7% del trimestre precedente), mentre in Francia resta stabile allo 0,3%. Subisce una contrazione la crescita economica in Giappone (-0,3%) e in Gran Bretagna (-0,5%), accelera invece quella degli Stati Uniti con un +0,8% rispetto al +0,6% del terzo trimestre.
Insomma, c’è poco da festeggiare. Ma lo si sapeva da oltre quindici giorni, ovvero da quel 27 gennaio quando Standard&Poor’s, con una mossa a sorpresa sottovalutata dai più, ha operato un downgrade del debito giapponese, inviando un raggelante promemoria a chiunque pensasse che la crisi dei debiti sovrani nel mondo industrializzato stesse perdendo potenza: non è così, e infatti sono i dati di crescita a confermarlo. L’agenzia di rating statunitense ha tagliato i 10,6 trilioni di dollari di debito nipponico di un notch ad AA-, frutto della paralisi governativa, di una contrazione della forza lavoro e di una crescita fuori controllo degli interessi passivi, tale da porre le dinamiche del debito su un binario insostenibile.
Julian Jessop della Capital Economics ammette che «il dramma che si sta svelando in Giappone ha implicazioni globali, visto che il Paese è il più grande creditore esterno del mondo con 3 trilioni di dollari di assets netti all’estero. In parallelo, questa vicenda può tramutarsi in un default greco all’ennesima potenza». Qual è il rischio? Semplice, c’è preoccupazione che le banche, i fondi pensioni e le assicurazioni giapponesi si trovino costrette a rimpatriare larghe somme di denaro per coprire le perdite interne in caso la crisi fiscale inneschi un’impennata dei rendimenti obbligazionari. Detto fatto, questo porterebbe con sé un crollo dei prezzi degli assets a livello mondiale.
Per Takahora Ogawa, analista per l’Asia di S&P’s, «l’economia giapponese oggi è uguale in termini nominali a quella del 1992, peccato che il debito pubblico sia triplicato. Il combinato di debito governativo centrale e regionale toccherà quest’anno il 233% del Pil, oppure il 259% calcolando anche i bonds emessi sotto il Fiscal Investment and Loan Programme». Rispetto all’Europa, poi, il Giappone ha soltanto cominciato una cura molto light di restrizione dei cordoni della borsa, viaggiando verso un deficit di budget che entro il 2013 sarà all’8% del Pil. Per Ogawa, «Tokyo non può permettersi numeri del genere, visto che il Paese sta esaurendo gli assets finanziari domestici necessari per assorbire il debito».
C’è poi il dato demografico. La popolazione giapponese ha cominciato a contrarsi dal 2005, divenendo di fatto pioniera di un destino che toccherà a breve anche all’Europa e al resto dell’Asia. L’età media è di 44,4 anni, il dato più alto al mondo e sta ulteriormente salendo in maniera molto rapida. Entro il 2055, stando a dati del Japan’s Social security Research Institute, la popolazione totale scenderà dagli attuali 127,5 milioni a 89,9 milioni: «Nonostante questo outlook demografico, il Giappone non ha né piani, né misure specifiche per far fronte a questa diminuzione e invecchiamento della popolazione», conclude il report di Standard&Poor’s.
Il Giappone è stato vittima di downgrade ripetuti tra il 1998 e il 2002 senza di fatto soffrire conseguenze troppo dolorose, ma si trattava di un mondo completamente diverso, visto che la crisi del credito globale ha mandato in frantumi per tutti le illusioni riguardo la santità del debito sovrano. La Banca per i Regolamenti Internazionali ha messo in guardia sul fatto che «i problemi fiscali stanno toccando il punto di ebollizione nei Paesi più avanzati, con il rischio accessorio di una crescita a dismisura dei rendimenti obbligazionari come conseguenza della stretta che colpirà gli investitori per eccesso di debito».
Kaoru Yosano, ministro dell’Economia giapponese, ha definito la decisione di S&P’s «deplorevole», visto che il governo sta lavorando a un piano per riformare il sistema fiscale e di sicurezza sociale: peccato che Yosano sia lo stesso uomo che, una settimana prima del downgrade, ammetteva candidamente come il suo Paese avesse raggiunto «un punto critico» e stesse vivendo «un incubo che si sostanzia nella decisione degli investitori, da un giorno con l’altro, di non avere più pazienza. A quel punto una crescita del tasso di interesse a lungo termine sarebbe ineluttabile». Il problema è che se il governo non farà qualcosa e in fretta, il Giappone potrebbe trasformarsi nella prima vittima asiatica della crisi finanziaria globale.
Fino a oggi, infatti, i mercati hanno tollerato la terribile situazione fiscale nipponica perché si trattava dell’economia che cresceva più velocemente all’interno del G7, grazie a un rimbalzo permesso da stimoli fiscali e dall’export. Ora, però, i dati Ocse certificano la contrazione del quarto trimestre, ovvero la fine dell’effetto placebo per il 2010 e il ritorno nella spirale. Per Adarsh Sinha di Bank of America, però, non dovrebbe esserci una crisi obbligazionaria quest’anno: «Le forze strutturali sono inesorabili e ci dicono che ogni anno che passa ci porta più vicino all’insufficienza dei risparmi interni per finanziare il debito pubblico. Detto questo, è difficile che il 2011 possa essere l’anno del punto di rottura e l’inizio della correzione». C’è da sperarlo, ma le entrate fiscali nel 2010 hanno coperto solo il 52% della spesa, oltre la metà del budget è stato frutto di prestiti: persino nell’anno del boom, il 2007, il gettito fiscale ha coperto solo il 70% della spesa pubblica, quindi il problema è da considerarsi cronico e non frutto della recente recessione.
Stando all’ultimo report del Fmi, senza un cambio drastico nella politica governativa la ratio debito pubblico/entrate salirà dal 236% di tre anni fa al 482% entro il 2015: nessun Paese in tempo di pace ha spostato così avanti i propri confini fiscali. C’è una ricetta immediata, ovvero aumentare il gettito fiscale aumentando da subito le aliquote in quegli strati dell’economia sotto tassati: ma a quale prezzo? Finora, lo scudo dai vigilantes globali ha funzionato grazie al tasso di detenzione interna del debito giapponese, il 95%, situazione che permette a Tokyo di emettere decennali a solo l’1,21% di rendimento, ma bisogna cominciare a chiedersi se questa ratio potrà continuare. Il Government Pension Investment Fund, principale detentore del debito giapponese, si è già tramutato da compratore netto a venditore netto, vista la necessità di fare cassa per pagare le pensioni ai baby-boomers che si ritirano dal mercato del lavoro.
Dylan Grice, storico ribassista sul Giappone per Societe Generale, è convinto che la crisi innescata dall’invecchiamento della popolazione potrebbe colpire le rendite già in due o tre anni, costringendo i pensionati a mettere mano ai loro risparmi e proprietà. Il tasso di risparmio è già sceso dal 15% del Pil nel 1990 a meno del 3% attuale e il trend parla di un possibile sconfinamento in area negativa, esaurendo le riserve necessarie per assorbire il debito statale. A quel punto il Giappone dovrà rivolgersi a investitori stranieri, che chiederanno, ovviamente, rendimenti più alti, tra il 4% e il 5%: e il governo non potrà permetterselo, visto che i pagamenti degli interessi passivi sono già al 28% delle entrate. Se davvero tenteranno di correggere la situazione con una contrazione fiscale, ovvero alzando le tasse come si pensa, si andrà incontro a una depressione che renderà una bazzecola quanto accaduto in Grecia: insomma, la situazione che il Giappone sta affrontando è quasi unica nella storia moderna.
E anche la carta dell’inflazione, in un ambiente economico simile, potrebbe trasportare rapidamente il Paese in stato di iperinflazione, una volta che il genio governativo sarà uscito dalla bottiglia. E nonostante il dato di crescita positivo certificato ieri dall’Ocse, la scorsa settimana il capo della Federal Reserve di St. Louis, James Bullard, ha dichiarato che «gli Stati Uniti oggi sono più vicini a conseguenze economiche di tipo giapponese di quanto non lo siano mai stati nella storia recente». E la chiamano ripresa globale…