Nel mio articolo di mercoledì parlavo di speculazione e, come immaginavo, alcuni lettori non hanno gradito la mia posizione. Ai loro appunti ho già risposto, ma oggi voglio porvi una questione secca, in modo da farvi capire chiaramente da dove derivano le mie convinzioni (ciò che va eliminata è la “deviazione finanziaria”, ovvero l’uso distorsivo della speculazione, la quale invece è sacrosanta e necessaria perché garantisce liquidità).
Chi sono i veri “ladri”? Chi ha comprato e compra contratti futures sul petrolio immaginando un aumento (più che probabile, stante la situazione in Medio Oriente) del prezzo, oppure lo Stato, i petrolieri e i distributori che quel margine di crescita già lo applicano alle pompe e attraverso le accise prima che si sostanzi nei fatti? Il 15% di margine speculativo immediato che si sta applicando in Italia in soli quattro giorni di crisi mi pare un po’ altino, voi cosa dite? Non avete nulla da obiettare a chi tratta, nell’immediato, il cosiddetto e tanto vituperato “petrolio di carta” come se fosse Brent reale?
Magari no, perché quei salassi ai distributori forse si sostanzieranno nell’acquisto di Lionel Messi da parte dell’Inter o di Cristiano Ronaldo da parte della Sampdoria, squadre presiedute da petrolieri “illuminati”. O magari la Roma riuscirà a restare un pochino italiana con un colpo di coda di Italpetroli, forse tentata di vendere proprio a Moratti le raffinerie di Civitavecchia. Purtroppo in Italia le cose vanno così, si sputa sugli avvoltoi di Wall Street e della City nemmeno conoscendo come operano e cosa fanno davvero e si limita l’indignazione per i furti reali (anche di Stato) a quattro parolacce all’atto del pagamento del pieno: panem et circenses, come al solito.
Tanto vi dovevo. Il problema è che gli aumenti non sembrano terminati, anzi. La divisione commodities di Nomura, infatti, sta lavorando su ipotesi di rialzi definiti “uncharted”, ovvero mai graficizzati come pattern, poiché mai raggiunti prima d’ora: il discrimine per il picco, stando alla banca d’affari giapponese, è rappresentato dalla possibilità che nelle prossime settimane i disordini coinvolgano anche l’Algeria. Con il Brent a quota 120 dollari, il timore è che si possa arrivare a livelli assurdi: «Potremmo tranquillamente vedere il petrolio a 220 dollari il barile se Libia e Algeria bloccassero la produzione», dichiara Michael Lo, analista di Nomura sul mercato petrolifero, il quale parla a chiare lettere di rischi maggiori rispetto a quelli del 1990-1991.
D’altronde, i fatti parlano chiaro: Eni ha chiuso il gasdotto Greenstream tra Libia e Sicilia e molte compagnie straniere stanno rimpatriando gli staff e bloccando la produzione. A oggi le forniture libiche sono scese a 800mila barili al giorno dalla media di 1,6 milioni. La compagnia di trivellazione tedesca Winthershell ha completamente bloccato la sua produzione di 100mila barili al giorno e la stessa Eni ha bloccato l’attività in alcuni siti, riducendo la sua produzione media di 550mila barili al giorno.
Per Barclays Capital, «1 milione di barili libici sono bloccati, ovvero non estratti e i rimanenti 600mila sono a rischio: l’Arabia Saudita può certamente intervenire con aumenti della fornitura, ma questo richiede tempo e il petrolio saudita non è un sostituto del prezioso “sweet crude” libico», pregiatissimo perché talmente “puro” da abbattere i costi di raffinazione (peccato però che di questo abbattimento godano solo petrolieri e distributori, non gli automobilisti).
Sempre stando a Nomura, un blocco della produzione in Libia e Algeria taglierebbe le forniture globali di 2,9 milioni di barili al giorno e ridurrebbe la capacità dell’Opec di 2,1 milioni di barili, un dato comparabile ai livelli d’emergenza raggiunti durante la guerra del Golfo e che potrebbe essere peggiore del picco di 147 dollari raggiunto nel 2008. In entrambi i casi, quei prezzi anticiparono o innescarono la recessione in Europa e negli Usa: Faith Birol, economista per l’International Energy Agency, ha dichiarato che «l’ultimo aumento dei prezzi è già divenuto un serio rischio per le fragili economie del blocco occidentale».
Alcuni analisti, poi, sono convinti che la corsa al rialzo sia dovuta anche a una sovrastima delle riserve saudite che ora suscita più di un dubbio: in un cable di WikiLeaks reso noto due settimane fa, un geologo del gigante petrolifero saudita Aramco parlava chiaramente di una sovrastima del 40% delle riserve del Regno. Un altro cable, poi, vedeva un gruppo di diplomatici Usa chiedersi «per quanto tempo i sauditi avranno il potere di indirizzare al ribasso i prezzi per un periodo prolungato». Ma c’è di più nel report di Nomura, il quale oltretutto non esamina l’ipotesi di scenario catastrofico data dell’esplosione totale del Golfo, visto che la valutazione dei passati shock petroliferi ha offerto un pattern diviso i tre fasi con un’esplosione totale dei prezzi nella fase finale.
Attualmente, per la banca d’affari, siamo alla fase uno. Gli aumenti dei prezzi, inoltre, pongono un dilemma poco piacevole alle Banche centrali, visto che questi sono inflazionari se nascono come conseguenza di una robusta crescita globale ma deflazionari se causati da limitazioni delle forniture che agiscono come tasse sulle nazioni consumatrici. Inoltre, i grandi esportatori di petrolio tendono a salvare extra-gettito dall’aumento dei prezzi nella fase iniziale, quindi il primo effetto è quello di drenaggio della domanda globale.
L’attuale situazione presenta elementi di entrambe le ipotesi, a cui va aggiunto il fiume di liquidità creato dalla Federal Reserve che sta entrando in circolo nel sistema globale agendo sulla prezzatura delle commodities. Bontà sua, mercoledì il segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, ha rassicurato sul fatto che «l’economia mondiale è abbastanza forte da poter gestire shock petroliferi», insistendo sul fatto che «le Banche centrali hanno molta esperienza nell’affrontare situazioni simili».
Nel luglio del 2008, la Bce rispose al picco record del petrolio alzando i tassi, nonostante sia l’Italia che la Germania fossero in recessione. Oggi le circostanze sono differenti, ma il seme del dubbio si sta insinuando: nonostante le parole rassicuranti di Jean-Claude Trichet, infatti, i toni della retorica stanno diventando più da falchi che da colombe sull’argomento, mentre la Fed dà maggiore peso ai rischi deflazionari e la Bank of England è già pronta a un aumento dei tassi tra il quarto e il mezzo punto.
Charles Robertson della Renaissance Capital conferma quanto da noi scritto ieri: il rischio reale che sta facendo innervosire gli investitori è la situazione in Arabia Saudita e il possibile contagio alla sua ricca provincia orientale, roccaforte della minoranza sciita al governo del Regno. L’Arabia produce l’11,6% dell’output petrolifero mondiale, ma vanta una percentuale di export molto superiore: «C’è il potenziale per una tensione molto seria e non solo tra gli sciiti. L’alta disoccupazione può rappresentare una dinamo che si espande in tutto il Paese e se l’Arabia o l’Iran cadranno in situazioni di destabilizzazione, i guai saranno davvero grossi».
Non a caso mercoledì, il re saudita Abdullah ha annunciato progetti di welfare e aiuto alla popolazione per 11 miliardi di dollari, un disperato tentativo finale di bagnare le polveri alla protesta che già si sta organizzando su internet per una manifestazione di massa il 20 di marzo. Stessa situazione che sta vivendo il Bahrain, dove l’opposizione che si è data appuntamento il 13 marzo per il “giorno della collera” troverà al suo fianco in piazza un alleato in più: è di ieri, infatti, la notizia che la General Federation for Bahrain Trade Unions, il principale sindacato del Paese, ha deciso di allearsi con le forze contrarie al governo chiedendo la realizzazione di un’agenda di riforme.
E lo scoppio di rivolte nel Paese cerniera dell’area, da sempre nelle mire dell’influenza iraniana e ospitante la Quinta Flotta statunitense, sarebbe davvero un’ipotesi da “worst case scenario”: quella che Nomura non ha voluto nemmeno prendere in considerazione, forse per il timore sempre più incombente delle profezie che si autoavverano.
P.S.: Avvertenza: se nei prossimi giorni sentirete parlare di nuovi (ancorché limitati) aumenti dei prezzi delle commodities alimentari dopo i crolli che hanno riguardato in queste ore grano e soia, non gettatevi anche voi nella vulgata di accusa contro gli speculatori brutti e cattivi. Il calo del prezzo dovuto ai timori che la crisi mediorientale vada a danneggiare la ripresa e quindi la domanda (con i fondi che hanno chiuso posizioni per il 20% del totale), è infatti sfruttato dai paesi proprio di quell’area per fare incetta di riserve: sono già in fila Egitto (il quale sta comprando 120mila tonnellate metriche di grano dalla Francia e 115mila dagli Stati Uniti, segno che entrambi i paesi hanno rafforzato le riserve nell’ultimo periodo agendo sulla prezzatura), Arabia Saudita e Iraq.
E nel marketing year 2010-2011, stando a dati del Dipartimento per l’Agricoltura Usa, sono attesi acquisti di grano da parte di paesi arabi e mediorientali per 39,3 milioni di tonnellate, pari al 32% degli acquisti globali. Domanda e offerta, scarsità e abbondanza: lasciate stare la speculazione.