La “Riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” (L. 92/2012) ha destato negli addetti ai lavori non poche perplessità e un dibattito ancora in corso per i modi in cui ha inteso perseguire i propri obiettivi, quali la creazione di occupazione e la realizzazione di un mercato dinamico. E sarà interessante confrontare le reazioni degli operatori in questi primi mesi con i dati che a livello nazionale saranno resi noti dopo il 18/01/2013, a conclusione della prima fase di monitoraggio e valutazione degli effetti della Riforma.
Fra i vari temi di cui si occupa la Riforma, qui ci soffermeremo sui Contratti collettivi aziendali, alla ricerca, nelle pieghe della stessa, degli ambiti in cui tale contrattazione possa liberamente attivarsi, completando quella di livello superiore. I contratti collettivi aziendali sono presenti nel panorama italiano sin dalla metà negli anni ‘50, ma è dal 2011 che sembrava aprirsi una nuova stagione per essi. Innanzitutto, con l’Accordo Interconfederale del 28 giugno tra Confindustria/Cgil-Cisl-Uil che detta nuovi criteri per “misurare” la rappresentatività dei sindacati, confermando però l’assetto contrattuale su due livelli proprio del sistema di relazioni industriali italiano, e accantonando di fatto soluzioni di sola contrattazione aziendale. Successivamente, con il cosiddetto contratto di prossimità ex art. 8 L. 148/2011, di recente dichiarato legittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza del 4/10/2012 n. 221, che introduce, per la prima volta nel nostro ordinamento, la possibilità di sottoscrivere contratti collettivi aziendali con una portata derogatoria potenzialmente molto più ampia della legge e della contrattazione collettiva di livello superiore (ne è un recente, discusso esempio il contratto di prossimità sottoscritto dal Gruppo Golden Lady).
Anche in continuità con la descritta valorizzazione della contrattazione aziendale, su cui parevano convergere entro certi limiti Governo e Parti sociali, tale istituto avrebbe meritato uno spazio normativo adeguato, ma, in prima battuta, non pare che la Riforma si muova in tal senso, dal momento che emerge in maniera piuttosto evidente come si sia preferito privilegiare la norma statuale e gli accordi sindacali stipulati a livello centrale. Ma al di là delle considerazioni generali, cerchiamo di sintetizzare modi e ambiti in cui la riforma interviene su questi temi.
Premi di produttività: sgravi contributivi e fiscali – La Riforma ha innanzitutto reso strutturale la riduzione contributiva a favore sia dell’impresa che dei lavoratori sui cosiddetti “premi di produttività” previsti dai contratti collettivi aziendali (V. art. 4 c. 28). I premi, per fruire di tale beneficio, devono essere incerti nella corresponsione e nell’ammontare, con una struttura collegata a parametri di produttività e competitività dell’impresa. È proprio in forza di un contratto collettivo aziendale che su tali somme, entro il limite del 5% della retribuzione percepita dal dipendente, è possibile fruire di uno sgravio del 25% dei contributi dovuti dai datori di lavoro (da applicare a un costo che oscilla tra il 28% e il 32%). Per i lavoratori, invece, lo sgravio è pari all’intera quota di contributi a loro carico (9,19% o 9,49%).
Seppur non previsto espressamente nella Riforma, attraverso un accordo aziendale gli stessi premi, insieme ad altre voci retributive correlate a incrementi di produttività dell’impresa, saranno oggetto per il 2013 di una tassazione agevolata per il dipendente. Infatti, la Legge di stabilità, in questi giorni all’esame del Parlamento, prevede, sia pur con una formulazione molto generica, la proroga delle “misure sperimentali per l’incremento della produttività del lavoro” introducendo una “speciale agevolazione” per gli anni 2013 e 2014 entro limiti massimi di spesa e previa emanazione entro il 15/01/2013 di un DPCM con le modalità di attuazione (V. art. 12 c. 3 DDL).
In proposito questa settimana è stato presentato al Governo l’accordo di produttività sottoscritto da associazioni imprenditoriali e sindacati – senza la firma della Cgil -, che tra i vari punti chiave contiene proprio i criteri-guida per l’applicazione degli sgravi fiscali e contributivi sul salario di produttività (che faranno da base alla stesura del DPCM).
Contratti di lavoro a termine e Somministrazione a termine – Nella parte della Riforma rivolta alla “flessibilità in entrata” sono previste altre possibilità di intervento per la Contrattazione collettiva aziendale. In particolare, la contrattazione aziendale ha due possibili ambiti per derogare alla nuova norma del cosiddetto stop and go, ovvero il periodo di attesa obbligatoria che deve intercorrere fra due contratti a termine, decisamente innalzato con la Riforma da 10 a 60 giorni per i contratti di 6 mesi e da 20 a 90 giorni per quelli di durata superiore (V. art.1 c.9 lett. g, h).
Il primo ambito è riservato alla contrattazione aziendale solo su espressa delega di quella nazionale – che ha invece facoltà di intervenire in via diretta – e consiste nella possibilità di ridurre detti termini rispettivamente a 20 e 30 giorni, solo nel caso in cui ricorrano per la seconda assunzione specifiche ragioni di ordine tecnico/organizzativo. A oggi solo il recente accordo di rinnovo del Ccnl Alimentari Industria ha delegato espressamente alla contrattazione aziendale la riduzione dello stop and go per tutte le tipologie di contratti a termine.
Per le stesse motivazioni organizzative dettate dalla legge, è altresì possibile per la contrattazione aziendale, ma sempre e solo su espressa delega della contrattazione di livello superiore, ricorrere al contratto a termine senza causale, anche in somministrazione, purché nel limite del 6% sul totale dei lavoratori occupati nell’unità produttiva (V. art. 1 c. 9 lett. b). Tale possibilità è alternativa a quella prevista dalla Riforma per la prima assunzione a termine senza causale per un massimo di 12 mesi. A oggi solo il Ccnl Cartai e Cartotecnici ha richiamato questa deroga, rinviandone integralmente l’applicazione alla contrattazione a livello aziendale.
Il secondo ambito di deroga è invece riconosciuto in via diretta e autonoma alla Contrattazione aziendale. Il Decreto sviluppo (V. art. 46bis c. 1 lett. a) L. 134/2012) ha infatti previsto che la riduzione dei termini dello stop and go sia consentita in ogni altro caso normato dai contratti collettivi stipulati a ogni livello. Questo nuovo intervento del legislatore sembra dettato dalla non positiva reazione del mercato del lavoro all’innalzamento dello stop and go, i cui effetti si stanno concentrando nella difficoltà di gestire la fase di rinnovo dei contratti, con l’inevitabile conseguenza di creare nelle aziende una turnazione più intensa dei lavoratori flessibili e un utilizzo di altri tipi di contratto per coprire il lungo periodo di attesa. Non sembra che tale innalzamento stia neppure favorendo l’occupazione a tempo indeterminato dei lavoratori a termine.
La formulazione della norma ha inoltre creato non pochi dubbi interpretativi, perché si sovrappone alla disposizione della Riforma che già consente alle intese aziendali di intervenire per specifiche ragioni organizzative, ma solo su espressa delega della contrattazione nazionale. Sul punto si è reso necessario un chiarimento del ministero del Lavoro che, in una recente circolare (V. Circ. n. 37/2012), ha precisato che la contrattazione aziendale può derogare in via diretta al termine di stop and go solo per ipotesi diverse e ulteriori da quelle di carattere organizzativo.
In conclusione, a parte qualche ulteriore, residuale potere contrattuale in tema di part-time e collaborazione a progetto, la Riforma non riserva altro spazio alla Contrattazione aziendale, fatta salva un’ultima opportunità di intervento contenuta nella delega al Governo (V. art. 4 c. 62) di adottare, entro aprile 2013, uno o più decreti per favorire, attraverso la stipula di un contratto aziendale, forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa (ad esempio informazione/consultazione, partecipazione agli utili e al capitale d’impresa).