Pessime notizie per le donne italiane. Lo affermano a chiare lettere due autorevoli ricerche – una condotta dall’Istat, l’altra dall’Isfol – diffuse nelle ultime settimane, che raccontano in termini numerici il rapporto tra lavoro e mondo femminile. E i numeri sono tutt’altro che rassicuranti: secondo il Rapporto annuale dell’Istat, il 15% delle donne è costretta a lasciare il lavoro dopo la gravidanza, mentre circa 800mila donne affermano di essere state costrette a dimettersi dopo aver avuto un figlio; la crescita del part-time (che aumenta di 104mila unità), inoltre, sarebbe indice non di una maggiore possibilità di scelta, ma di una peggiore qualità del lavoro femminile, essendo riconducibile quasi mai a un’opzione volontaria della lavoratrice.
Il volume Isfol “Occupazione e maternità: modelli territoriali e forme di compatibilità”, d’altro canto, spiega la difficile situazione facendo riferimento alla correlazione tra occupazione femminile, scelte riproduttive e offerta di servizi di cura, tenendo presenti non solo le diverse realtà regionali del nostro Paese, ma anche quelle di altri paesi europei.
Solo il 12,7% di bambini italiani riesce a trovare posto negli asili nido; mettendo in relazione la presenza di un maggior numero di strutture per l’infanzia (come quella di alcune regioni italiane) e il tasso di fecondità, sembrerebbe che le donne che possono contare sui nidi abbiano il 2,5% in più di probabilità di fare figli.
Se dunque è vero che il modello italiano è fondato sul breadwinner ma, a differenza di paesi come Francia o Germania, è centrato sulla famiglia invece che sullo Stato, e se è vero che all’interno di questa famiglia il peso del welfare ricade quasi interamente sulle donne, la conclusione appare pressoché obbligata: è sul welfare che bisogna intervenire, ampliando l’offerta di servizi di childcare come strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro. Tanto più che, come sottolinea in particolare la sezione dello studio curata da Tiziana Canal, questi servizi sembrano ormai essere comprovati come ingredienti indispensabili per lo sviluppo cognitivo del bambino.
Tutto chiaro, dunque. O no? Citando copiosamente le ricerche che supportano la tesi del riflesso positivo della frequenza di un asilo nido sui bambini (anzi, sui neonati, visto che – come ricorda lo stesso rapporto Isfol – la legge prevede l’astensione obbligatoria fino ai tre mesi di vita), i ricercatori dimenticano vistosamente di citare materiali a supporto della tesi opposta. E, nello specifico, non semplici opinioni provenienti dal “senso comune”, ma paper, articoli e pronunciamenti scientifici.
Uno per tutti: il “Memorandum” della Deutsche Psychoanalytische Vereinigung, risalente al dicembre 2007, e dunque più recente delle pubblicazioni di studiosi come John Bowlby, ritenute (a torto o a ragione) ormai “superate”, delle quali tuttavia il Memorandum degli psicanalisti tedeschi riprende le acquisizioni fondamentali (in particolare, sul legame tra madre e bambino nei primi mesi di vita).
Ma la “dimenticanza” non si ferma qui, se è vero che lungo tutto il rapporto si parla abbondantemente di misure di conciliazione come l’incremento di servizi di assistenza alla prima infanzia, che richiedono la delega dell’allevamento dei figli da parte dei genitori a terzi; e si fa invece scarso cenno a tutto il resto delle iniziative di conciliazione – come l’elasticità degli orari in entrata e in uscita, la revisione dei congedi, lo svincolamento dell’attività lavorativa da luoghi fisici -, ben note nei paesi europei citati più volte ad esempio nel rapporto. Iniziative che, invece di ripercuotersi sulla famiglia, una volta tanto, mettono in discussione l’organizzazione del lavoro, e suggeriscono di rivederne le strutture più obsolete a vantaggio non solo delle donne, ma di tutti i lavoratori.
Se è vero che esiste una correlazione positiva tra presenza di servizi di assistenza e coinvolgimento lavorativo delle donne, nulla sappiamo ancora della correlazione possibile tra lavoro femminile e flessibilità, non solo come strumento di ingaggio all’ingresso nel mercato del lavoro, ma come strumento di conciliazione valido lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Quante donne in più lavorerebbero, se potessero farlo senza preoccuparsi di timbrare il cartellino; se sapessero che il loro stipendio è legato al rendimento, invece che alla presenza; se fossero rassicurate dal riconoscimento non solo del loro diritto al lavoro, ma anche a una maternità partecipata?
Se lo stesso rapporto Isfol ammette tra le righe che “una delle ragioni principali di abbandono del lavoro è legato alla cura dei figli” e che “alcune regioni del Nord mostrano una percentuale maggiore di donne casalinghe con alle spalle esperienze lavorative”, vale la pena ormai di allargare l’ottica, sospettando – ben oltre gli slogan di un certo mainstream – l’esistenza di una volontà materna e genitoriale ben precisa, e la sua resistenza non alla mancanza di servizi, ma alla rigidità lavorativa; vale la pena di contare, oltre i part-time involontari, anche i full-time involontari, forse persino più numerosi, e anticamera certa delle dimissioni; vale la pena di chiedersi se accanto alle numerose “dimissionarie coatte” non esista una popolazione di “lavoratrici coatte” altrettanto vasta, che cedono a un ricatto uguale e contrario, e alle quali il desiderio o il bisogno di lavorare costa a tutt’oggi la rinuncia ai figli.