Spending review in casa Cisl. Da ora fino al prossimo Congresso confederale dell’organizzazione di Raffaele Bonanni (che si svolgerà nel prossimo giugno) andrà a regime il piano di riforma organizzativa – illustrato nell’ultima riunione del Comitato esecutivo – la cui portata presenta sicuramente aspetti di grande interesse e particolarmente innovativi, tanto che, a leggere gli obiettivi, c’è da avere qualche dubbio sull’effettiva capacità di realizzarlo. Ma Bonanni è un dirigente tanto tenace e deciso da far credere di avere successo.
Le attuali 115 strutture provinciali saranno ridotte a circa 70; a ciò si aggiungerà un taglio del 30% dei componenti le segreterie, che non potranno avere più di 5 membri anche se tali organi dovessero risultare da processi di fusione o di incorporazione. Pure talune strutture regionali saranno accorpate. Le nuove segreterie dovranno includere almeno una donna. Ma non solo: le lavoratrici avranno riservato il 30% dei posti negli organismi elettivi. Un drastico giro di vite è previsto per quanto riguarda le federazioni di categoria che scenderanno (magari secondo accorpamenti un po’ discutibili) da 19 a 9.
A valle di questa operazione ben 10mila quadri sindacali dovranno trovare un’altra collocazione. Negli organismi di categoria ben il 60% dei componenti dovrà venire dalle Rsu (nelle strutture confederali provinciali solo il 40%). Tutto ciò nel tentativo di spostare il baricentro dell’organizzazione sulla contrattazione di secondo livello, anche tenendo conto dell’impegno profuso nel negoziato sulla produttività che, ancora una volta, ha visto la Cisl rompere gli indugi e sfidare le resistenze della Cgil sempre più condizionata dalla Fiom.
Per un sindacato è fondamentale essere in grado di adottare un modello organizzativo funzionale e coerente con le politiche che intende portare avanti. È sempre stato così nella storia sindacale dal secondo Dopoguerra ai nostri giorni. Il rapporto tra le strutture orizzontali e quelle di categoria accompagna, in vari modi e diverse combinazioni di ruoli e poteri, ma ininterrottamente, una vicenda ormai ultrasecolare. Le federazioni nazionali di categoria o strutture verticali raggruppano i lavoratori appartenenti a un determinato comparto merceologico e a settori a esso affini. Tali strutture erano diffuse anche nelle esperienze prefasciste. Ma ricevettero un impulso particolare proprio durante il periodo corporativo per il quale la “categoria” svolgeva una funzione istituzionale e i sindacati erano addirittura soggetti pubblici chiamati a stipulare contratti aventi valore di legge.
Quegli assetti organizzativi e contrattuali lasciarono un segno di continuità anche dopo la caduta del fascismo nell’ordinamento sindacale democratico, per il quale tuttavia i confini della categoria assumevano un significato di contesto privato-collettivo al cui interno le parti davano corso ai loro negoziati. Poi col passare del tempo questi ambiti contrattuali furono modificati, rivisti e accorpati nel libero gioco della contrattazione il cui primo dovere è quello di fissare i confini di applicabilità delle norme concordate.
Le federazioni di categoria sono “confederate” nel territorio (nazionale e locale) da istanze orizzontali che, nell’immediato dopoguerra, erano appunto e rispettivamente la Cgil e le Camere del Lavoro (l’impianto è rimasto, moltiplicato per il numero delle sigle sindacali anche dopo le scissioni e la nascita di nuovi sindacati). Va da sé che la costruzione delle Camere del Lavoro, dopo la Liberazione, rappresentasse anche la riscoperta del sindacalismo democratico, mentre venivano smantellate le istituzioni corporative. In quei tempi poi erano assolutamente prevalenti le rivendicazioni di carattere generale collegate a bisogni minimi di dignitosa sopravvivenza. Questa politica rivendicativa poggiava prioritariamente sulla capacità di mobilitazione delle masse (si pensi al caso dell’agricoltura) che solo le strutture orizzontali erano in grado di esprimere, essendo le federazioni di categoria più concentrate sui problemi specifici dei lavoratori rappresentati.
Per molti anni anche la contrattazione collettiva vide le confederazioni come protagoniste pressoché assolute. In ogni caso il rapporto tra strutture verticali e orizzontali ha cambiato più volte pelle durante le diverse fasi storiche del sindacalismo postbellico, come peraltro è accaduto e accade anche in altri Paesi, essendo tale dialettica uno degli angoli di visuale più interessanti e utili per studiare e comprendere la specificità dei differenti movimenti sindacali nazionali. All’inizio degli anni ‘60, la nuova politica contrattuale cominciò ad assumere, in mezzo a tante traversie e dispareri, la negoziazione di contratti aziendali complementari al contratto nazionale di categoria, allo scopo di poter meglio redistribuire i profitti e i recuperi di produttività nelle singole aziende, essendo il salario aziendale affidato all’esclusivo dominio del datore.
Un’indicazione siffatta apriva poi un nuovo problema: quello della presenza di un’istanza sindacale nel posto di lavoro collegato e coordinato con il sindacato esterno. Veniva così messo in discussione il ruolo delle Commissioni interne, un organismo forzatamente unitario chiamato a svolgere, dall’accordo interconfederale del 1953, compiti di rappresentanza limitati all’applicazione dei contratti nazionali. E fu questa la strategia che venne consolidata, un decennio dopo, attraverso la costituzione dei delegati e dei consigli di fabbrica che, mutatis mutandis e deposte le velleità palingenetiche, sono anche adesso i “danti causa” delle Rsu che, già nelle intese precedenti e, da ultima, in quella sulla produttività sono riconosciute come il soggetto contrattuale in azienda, legittimato, secondo procedure definite e Fiom permettendo, a prendere decisioni a maggioranza impegnative per tutti i sindacati.