La tassazione “punitiva” – per decreto – dei bonus 2009 di 20mila bankers inglesi da parte del governo Brown è sembrata sulle prime l’ennesima bizza populista di un premier laburista “azzoppato”, prossimo a perdere le elezioni e a lasciare così al solo Zapatero la bandiera della sinistra al potere in Europa. Sembrava la replica della proposta di Tobin tax “anti-speculazione” all’ultimo G-20 di Pittsburgh in settembre: fatta subito a pezzi dagli Stati Uniti a nome di tutti.
Invece il blitz di Brown nel pre-budget è piaciuto a tutti: anzitutto al presidente francese Nicolas Sarkozy, il quale ha colto al volo l’occasione per ricucire il mini-incidente diplomatico occorso sull’incarico di commissario Ue al Mercato interno e ai Servizi finanziari al francese Michel Barnier.
Certo, la lettera co-firmata da Brown e Sarkozy al Financial Times, accoglieva più i toni neo-rigoristi di Parigi sulla riforma dei mercati che le preoccupazioni della City. E non ha dunque stupito che anche il cancelliere tedesco Angela Merkel – dopo aver appreso che anche la Francia falcidierà i bonus dei suoi banchieri – si sia interessata alla “buona idea” di Londra.
Ma l’escalation di una classe politica globale improvvisamente decisa a regalare ai banchieri solo carbone per Natale ha raggiunto velocemente l’apice quando il presidente americano Barack Obama ha attaccato Wall Street: “Non sono stato eletto per aiutare i gatti grassi”, ha detto domenica sera al seguitissimo “60 minutes” della Cbs, ricorrendo all’epiteto storico contro i banchieri d’affari di New York. Poche ore dopo, ieri sera, alla Casa Bianca, Obama ha raccolto i dodici “gatti” di maggior stazza a Wall Street e dintorni. Tre di loro (i boss di Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup) per curiosa coinidenza hanno partecipato per teleconferenza, bloccati dalla nebbia che gravava su Washington.
Chissà, forse Lloyd Blankfein, il grande capo della Goldman, ha preferito non dover incrociare lo sguardo con il presidente e ascoltarlo scandire: “Le banche del paese hanno l’obbligo di aiutare l’accelerazione della ripresa americana, fuori da una crisi che hanno largamente provocato”.
Obama ha pressato i banchieri su ogni fronte: l’erogazione del credito alle imprese minori, la riforma regolatoria del sistema finanziario, anche i livelli retributivi dei top manager del settore, la necessità di far tornare al bilancio federale “ogni singolo cent” delle centinaia di miliardi di dollari di aiuti pubblici d’emergenza erogati al settore all’indomani del crack di Lehman Brothers.
“Il destino delle istituzioni finanziarie americane è strettamente legato al destino del paese e della sua economia": è stato questo il succo della “ripartenza” di Obama, spesso apertamente accusato di essere stato troppo accondiscendente con i responsabili della Grande Crisi, che il presidente ha del resto ereditato al suo culmine dalla precedente amministrazione repubblicana. Il messaggio è solo in parte scontato: l’establishment finanziario è da settimane in pieno forcing per “far dimenticare” le origini e gli sviluppi della crisi finanziaria, facendosi paradossalmente scudo con la recessione (cioè con l’effetto diffuso su Pil e occupazione).
Ma le istituzioni politiche, a loro volta, sono sotto la pressione di opinioni pubbliche colpite in tutte le variabili economiche (lavoro, consumi, risparmio, pensione, casa, tasse, servizi sanitari e scolastici, etc) e continuano a non capire come proprio i banchieri non sopportino i costi della crisi, dopo essere stati salvati dai bilanci pubblici. Questa nota ha già segnalato – con preoccupazione – come il regolamento di conti tra mercati finanziari, economia reale, governi e società civile rischiava di risolversi con un’oggettiva impunità per i grandi banchieri.
Impunità non giudiziaria, ma storico-economica: l’affermazione del primato di un’industria finanziaria tanto globalizzata quanto oligopolizzata e capace di piegare qualsiasi altra struttura sociopolitica, a cominciare dalle banche centrali e dalle mille “istituzioni di garanzia” proliferate dal Big Bang di metà anni ’80, ma incapaci poi di intercettare e disinnescare per tempo le bolle. Che probabilmente si stanno già riformando. Per questo, da Brown a Obama, i politici hanno capito che il G-20 è già superato dopo la terza edizione.