Gli equilibri di controllo delle Generali sono da tempo una categoria astratta. Se ne parla ormai anche a Natale (lontani ancora dall’assemblea “pasquale” di Trieste) perché i pronostici su una presidenza perennemente “in scadenza” (anche quando magari formalmente non lo è) rappresentano un vero termometro dei rapporti all’interno di una grande finanza italiana, al confine di quella internazionale.
Un mondo (e un’istituzione) che resiste da quasi due secoli (saranno festeggiati, in teoria, nel 2031) a dispetto di guerre e crisi globali. Che ne sarà allora del Leone all’inizio del decennio dell’exit strategy?
La presidenza di Antoine Bernheim sembra veramente giunta al capolinea. Non solo e non tanto per gli 84 anni del finanziere francese, presente dal 1973 nel board Generali: da quando cioè la grande compagnia – di fatto senza azionisti di riferimento – ritrovò in Lazard la sua antica radice ebraica e in Mediobanca il più solido degli agganci nella finanza bancocentrica italiana, più pubblica che privata.
Quel mondo è finito da tempo: perfino Lazard non è più la maison israelita e cosmopolita, ma basata a Parigi, che vide crescere Bernheim: dietro a lui ci sono businessmen come Vincent Bolloré e Tarak ben Ammar. Uomini a loro agio in molti Palazzi del potere (a partire dall’Eliseo di Nicolas Sarkozy), a cavallo di molti confini e nei settori più disparati e strategici (dalla bancassicurazione ai media, all’industria innovativa come Pininfarina): forse in grado di trattare lauti guadagni nella cessione delle loro partecipazioni, non di imporre la loro leadership all’establishment politico-finanziario di un paese come l’Italia.
In Mediobanca, scomparsi Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi, c’è Cesare Geronzi. L’ex presidente di Capitalia – anche se alla lontana – è un po’ erede di un mondo creditizio “centauro”, un po’ pubblico e po’ nazionale: che sembrava cancellato dalla finanza globale e che sta invece tornando un po’ in auge ovunque, con gli Stati richiamati loro malgrado a salvare le grandi banche.
Ammesso che oggi Cuccia potesse avere l’autorevolezza assoluta del suo tempo, Geronzi non è comunque una controfigura del banchiere di Via Filodrammatici: non fosse altro che per il coinvolgimento processuale in vicende giudiziarie non trascurabili come Parmalat. Geronzi è certamente il candidato numero uno per la successione di Bernheim: ha alle sue spalle il “suo” socio UniCredit, primus inter pares tra gli azionisti di Mediobanca, alla quale è ormai legato quasi orizzontalmente dopo due operazioni di ricapitalizzazione.
Per di più l’uomo forte italiano tra gli azionisti di Piazza Cordusio (il vicepresidente Fabrizio Palenzona, che rappresenta la Fondazione Crt) è da sempre vicino a Geronzi (come Salvatore Ligresti), al centro di un network di interessi forti nel paese, dalle autostrade agli aeroporti. Ancora, nell’azionariato delle Generali si sta continuamente rafforzando il gruppo Caltagirone, simbolo di un’impreditoria romana (Acea) alla ricerca di spazi su scacchieri più importanti (da Mps a Rcs). Basteranno a Geronzi (a dispetto di tutte le smentite di rito) per traslocare a Trieste?
In questo caso la spada di Damocle dei requisiti di onorabilità (ancora meno stretti per le assicurazioni che per le banche) non peserebbe in caso di nuovi intoppi giudiziari. Ma chi sostituirebbe, in ogni caso, il banchiere romano, nella poltrona-crocevia di Piazzetta Cuccia? Un imprenditore italiano azionista come ad esempio Marco Tronchetti Provera?
Il tema dell’“italianità” di Mediobanca riconduce però al ruolo storico di intercapedine attiva tra Stato e mercato, tra affari e politica. E se un tempo l’istituto aveva come sponde l’intellighenzia laica (che presidiava stabilmente gangli come Tesoro e Bankitalia anche negli anni della lunga egemonia Dc), oggi si confronta con la larga maggioranza di governo del premier-imprenditore Silvio Berlusconi (che è pure azionista del patto, rappresentato in consiglio dalla figlia Marina).
Un uomo d’affari, il Cavaliere, che rimane anche un banchiere-assicuratore (Fininvest è ancora grande azionista di Mediolanum, a sua volta partner della stessa Mediobanca e di Banca Esperia). L’ipotesi di fondere Mediolanum in Generali (che porterebbe a Fininvest una rilevante partecipazione finanziaria nel Leone) è sul tappeto da tempo. D’altro canto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, pur non avendo fatto ingresso nel capitale di UniCredit via Trem-bond, ha rafforzato la sua posizione nel settore bancario: il fondo per la capitalizzazione di Cassa depositi e prestiti, Intesa e UniCredit (favorita dal presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti) ha confermato il suo peso.
Infine il Governatore Mario Draghi: ex banchiere d’affari in Goldman Sachs, a suo tempo vociferato di presidenza di garanzia in Mediobanca quando in sella c’era ancora Maranghi. Se n’è parlato apertamente negli ultimi giorni per la presidenza Generali: forse un po’ fuori tempo, visto l’accelerazione della campagna per la presidenza della Bce, che verrà assegnata a inizio 2011 e che si sta già risolvendo in un testa a testa tra il banchiere italiano e il presidente della Bundesbank Axel Weber.
Ma non è certo “fuori tema”, sullo scacchiere Generali, rammentare il ruolo di azionista rilevante del Fondo pensioni Bankitalia. Solo formalmente silente: già ai tempi di Antonio Fazio si astenne polemicamente sulla rimozione di Alfonso Desiata mentre Draghi, meno platealmente, l’anno scorso pretese il rispetto pieno del “suo” testo unico in materia di governance, imponendo l’elezione di un presidente del collegio sindacale veramente “di minoranza”.
Chi quindi cerca già nei dintorni di Via Nazionale il profilo del prossimo presidente (o di quello di Mediobanca) qualche ragione potrebbe averla. Soprattutto allorché restano in “riserva della Repubblica” un personaggio che avrebbe potuto essere Governatore al posto di Draghi (Tommaso Padoa Schioppa, per di più figlio di un dirigente delle Generali) oppure un ex commissario all’Antitrust Ue ed ex rettore della Bocconi come Mario Monti: a lungo, in passato, nel board e nell’esecutivo del Leone.