Senza l’infelicissima battuta «Fassina chi?», quella di ieri si sarebbe chiusa come l’ennesima giornata politica centrata sui battibecchi tra Matteo Renzi e il governo, in particolare il vicepremier Angelino Alfano su unioni civili e famiglia. D’improvviso, con le dimissioni irrevocabili del viceministro dell’Economia, lo scontro è diventato uno psicodramma, quello del neo-segretario del primo partito italiano che proprio non ne azzecca una, pagando tutta la sua inesperienza.
Il giovane Renzi ha in mano il Pd, sfida ora Grillo ora Letta ora Alfano ora Napolitano, ritiene che l’investitura delle primarie gli garantisca una sorta di immunità, di tocco magico, di infallibilità. La battuta sgradevole su Stefano Fassina, che ne ha determinato l’addio al governo, capovolge il modo con cui finora si è guardato alle mosse del rottamatore. Va agli auguri natalizi del Quirinale disertando il brindisi? Un salutare distacco dai luoghi del potere. Convoca la direzione alle 7 del mattino? Una scossa alle abitudini della vecchia politica. La riunisce nuovamente nella sede del suo comitato elettorale a Firenze (successo ieri) anziché nei luoghi istituzionali? Una rottura degli schemi. Detta l’agenda al governo Letta (fino a prova contraria un suo compagno di partito) compromettendone la stabilità? È il comportamento di un leader. Provoca uno come Grillo tacendo quando l’ex comico genovese gli risponde a «scorreggine»? È la superiorità di chi non risponde alle provocazioni. Propone tre ipotesi di riforma elettorale senza formalizzarne alcuna? Un modo per stanare l’avversario.
Il gesto di Fassina ribalta queste interpretazioni. Le azioni di Renzi ora possono essere considerate altrettante gaffe, dettate dall’inesperienza e dalla voglia di strafare, se non addirittura da una certa insipienza. Vero che Fassina aveva già fatto capire che non intendeva più fare il cireneo: era finito al governo in quota Bersani, le sue idee sono antitetiche a quelle di Renzi, eppure toccava a lui – come vice di Saccomanni – sobbarcarsi il peso di scelte impopolari o addirittura di non-scelte, come quelle sull’Imu e le tasse immobiliari. Ma è stata l’ironia supponente di Renzi a offrirgli l’occasione di togliere il disturbo. «Le parole di Renzi su di me – ha spiegato – confermano la valutazione politica che ho proposto in questi giorni: la delegazione del Pd al governo va resa coerente con il risultato congressuale. Non c’è nulla di personale, è una questione politica». Anche se, ha aggiunto Fassina, «il segretario del mio partito ha risposto senza rispetto non solo delle mie opinioni ma anche della mia persona».
Ora il leader Pd dovrà smetterla di mettere bastoni tra le ruote di Letta e sarà costretto a puntellare il governo. Spiega lo stesso Fassina: «È responsabilità di Renzi, che ha ricevuto un così largo mandato, proporre uomini e donne sulla sua linea». Per Letta sarà l’occasione di un mini-rimpasto, quello che il rottamatore diceva di non volere per avere mani libere. Ancora una volta, i problemi maggiori per il premier vengono dal suo partito. Il presidente del Consiglio avrebbe fatto volentieri a meno di perdere un altro pezzo dell’esecutivo in una fase non certo brillante. Ora sarà ancora più difficile mediare tra posizioni che si radicalizzano su temi come le unioni civili, che non appaiono urgenti nell’agenda del governo ma rappresentano una scelta identitaria, una bandierina piantata nel campo avversario.
Ma anche per il rottamatore sarà più arduo dare ordini al governo e tenere unito il partito. Le dimissioni di Fassina riaprono la polemica che aveva accompagnato le primarie: Renzi applica un modello «berlusconiano» al Pd, il partito di un uomo solo, «padronale» secondo la definizione bruciante di Fassina. La svolta giovanilistica di Renzi è sotto scacco, anche se larga parte dei democratici è ancora dalla sua parte.