Tra i libri che gli ebrei hanno dedicato all’annientamento del loro popolo, Yossl Rakover si rivolge a Dio, pubblicato da Adelphi nel 1997, non è tra i più recenti né tra i più noti. Il racconto è breve, soltanto 18 pagine di eccezionale intensità. E’ l’eterna domanda di Giobbe, più precisamente è la lotta di Giacobbe con il Dio che ha nascosto il suo volto nella notte del male, nel ghetto di Varsavia:
Sono felice di appartenere al più infelice di tutti i popoli della terra, la cui Legge rappresenta il grado più alto e più bello di tutti gli statuti e le morali. Adesso questa nostra Legge è resa ancor più santa ed eterna dal fatto d’essere così violata e profanata dai nemici di Dio. Penso che essere ebreo sia una virtù innata. Si nasce ebrei così come si nasce artisti. Non ci si può liberare dall’essere ebrei. “Non vi è cosa più intatta di un cuore spezzato” ha detto una volta un grande rabbino. Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui.
Perciò concedimi, Dio, prima di morire, ora che in me non vi è traccia di paura e la mia condizione è di assoluta calma interiore e sicurezza, di chiederti ragione, per l’ultima volta nella vita. Ti voglio dire in modo chiaro e aperto che ora più che in qualsiasi tratto precedente del nostro infinito cammino di tormenti, noi torturati, disonorati, soffocati, noi sepolti vivi e bruciati vivi, noi oltraggiati, scherniti, derisi, noi massacrati a milioni, abbiamo diritto di sapere: dove si trovano i confini della Tua pazienza? E qualcosa ancora ti voglio dire: non tendere troppo la corda, perché, non sia mai, potrebbe spezzarsi. Muoio tranquillo, ma non appagato, colpito, ma non asservito, amareggiato, ma non deluso, credente, ma non supplice, colmo d’amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente “amen”.
La storia avventurosa dell’opera è ripercorsa dal curatore del testo. Esso appare per la prima volta nel 1946 su una rivista in lingua yiddish di Buenos Aires, presentato come l’ultimo messaggio di un abitante del ghetto di Varsavia, sigillato con cura in una piccola bottiglia e ritrovato tra i cumuli delle pietre e i poveri resti carbonizzati delle vittime.
Viene subito divulgato e tradotto in Israele, Germania, Francia, Stati Uniti, diventando quasi una leggenda, come del resto altri scritti ebraici fortunosamente scampati alla distruzione. Da lungo tempo una legge rabbinica prescriveva infatti che bottiglie, bidoni, cassette di ferro impedissero a mani sacrileghe di impossessarsi di qualunque frammento portasse scritto il nome di Dio. Dalla prima guerra mondiale essa venne estesa ai poeti, agli scrittori, a ogni testimonianza della persecuzione degli ebrei: il nome di Israele diventa sacro come quello di Dio. In questa luce, sia detto per inciso, si comprende ancor più la pregnanza del discorso di Benedetto XVI a Yad Vashem, luogo della memoria di coloro che “persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi”.
Si spiega dunque con l’obbedienza a questa legge la facilità nell’attribuire lo scritto a un testimone, il fatto che il vero autore rimanga nell’ombra e quando rivendica la paternità del testo venga a lungo contestato.
Zvi Kolitz, nato in Lituania nel 1920, figlio di un rabbino, fuggito dalla patria con la famiglia nel 1937, prima che il suo paese venisse stritolato da Stalin e da Hitler, giunto a Gerusalemme nel 1940, divenuto membro dell’estremismo antibritannico, relatore al Congresso sionistico mondiale del 1946 a Buenos Aires, aveva scritto in una pausa dei lavori le pagine che verranno a lungo scambiate per un documento autobiografico. Solo nel 1994 viene ritrovata una copia della rivista con la prima e autentica stesura, e la verità è stabilita in modo inoppugnabile.
In un saggio del 1955 Emmanuel Lévinas definiva quel documento ancora ritenuto di autore anonimo “un testo bello e vero, vero come solo la finzione può essere”. Umanesimo integrale e austero, pieno di virile dolcezza, in cui appare la vigorosa dialettica tra Dio e l’uomo fatto a sua immagine.