Il pensiero corrente su flessibilità e conciliazione si potrebbe riassumere parafrasando una vecchia e sfortunata battuta ministeriale di qualche tempo fa: con la conciliazione non si mangia. Tradotto, significa una delle obiezioni tutt’ora più forti all’introduzione in azienda di un’organizzazione del lavoro più flessibile, anche e soprattutto a vantaggio dei genitori lavoratori e dei caregivers: la difficoltà di controllare, valutare, quantificare i benefici sia in termini di costi e ricavi per il datore di lavoro, sia in termini di benefici per il lavoratore.
La sfida che si profila oggi non è più soltanto quella di inaugurare politiche di conciliazione e welfare nell’organizzazione, ma anche di misurare gli impatti positivi di una simile scelta, fornendole un fondamento economico oggettivo oltre a quello sociale e umano. Progetti internazionali come “Employers for carers”, a sostegno dei lavoratori che si dedicano all’accudimento di familiari non autosufficienti, citano a fondamento dei programmi attivati le testimonianze degli imprenditori e dei manager che riferiscono di una provata riduzione dei costi rispetto all’assenza di iniziative.
Tra gli altri, Caroline Waters, capo del personale di British Telecom Group – che su 102 mila dipendenti ne conta 75mila che beneficiano della flessibilità -, parla di un incremento della produttività per i lavoratori flessibili del 21%, pari a un valore economico tra i 5 e i 6 milioni di sterline; mentre il turnover del personale, che in media nel settore è del 17%, raggiunge solo il 4%. A ciò si aggiunge una diminuzione delle assenze correlate allo stress del 26% per i lavoratori flessibili, che in pari tempo risultano in media il 14% più felici degli altri colleghi, riuscendo ad armonizzare i loro oneri di cura con quelli lavorativi.
Ancora, negli Stati Uniti, la rivista “Social Problems” ha di recente pubblicato una ricerca – della quale ha riferito dalle nostre parti Il Corriere della Sera – sui riflessi della flessibilità e sull’efficacia di un modello organizzativo (denominato Rowe, acronimo di Result-Only Work Environment) basato sulla misurazione delle performance, invece che sulla presenza. I risultati parlano di una riduzione del 45% dei costi legati agli spostamenti interni, di una diminuzione dello stress, e degli effetti sulla motivazione dei lavoratori a non cambiare azienda.
E in Italia? La Regione Lombardia, tradizionalmente attenta alle politiche di conciliazione, già in primavera ha avviato insieme all’Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano (Altis) una ricerca per individuare una serie di indicatori-chiave della conciliazione in azienda, in modo da quantificarne efficacia ed efficienza. Lo scopo è non soltanto rendere osservabili, misurabili, e quindi comparabili i vari risultati, creando e diffondendo quella che da Altis definiscono “la cultura del dato”, ma anche facilitare gli interventi tempestivi a correzione e miglioramento delle situazioni critiche.
Il progetto, per il quale i lavori si protrarranno almeno fino alla fine di quest’anno, dovrebbe conferire evidenza al carattere di investimento positivo delle misure di conciliazione, che risultano vincenti non solo per la soddisfazione e la qualità della vita dei lavoratori, ma per tutto il sistema dei diversi attori coinvolti (aziende, enti pubblici, associazioni etc.).
Un aspetto particolarmente importante del progetto sta nella raccolta preliminare di informazioni sul fabbisogno di conciliazione dei beneficiari, elemento essenziale per poter poi verificare la rispondenza delle misure adottate alle effettive esigenze. Oltre a prevedere la somministrazione di un questionario ai dipendenti delle aziende lombarde (grandi, ma anche piccole e medie) e alle imprenditrici e libere professioniste, il progetto si propone infatti di raccogliere contributi e adesioni di addetti ai lavori, imprese e lavoratori anche in Rete, avvalendosi di strumenti come Facebook o il social network professionale Linkedin.
Un modo funzionale e diretto di ancorare i criteri di misurazione a una realtà effettuale, per evitare il rischio che, promuovendo la “cultura del dato”, si perda di vista quella dell’uomo che lo “nutre”.