«In politica contano solo i rapporti di forza e in questa partita chi ha più da perdere è Alfano», dice un «dirigente navigato» del Partito democratico interpellato dall’agenzia Ansa. Una frase illuminante. Perché mostra il bivio cui si trova il centrodestra, vecchio e nuovo, alla vigilia dell’incarico a Matteo Renzi.
Silvio Berlusconi è tornato al Quirinale serio, compassato, quasi dimesso ma in cuor suo esultante. Rimettere piede sul Colle da cui se n’era andato sconfitto per fare posto a Mario Monti, riguadagnare i riflettori come leader responsabile e riformista, proclamare senza sollevare interrogativi l’ambiguità di un partito che sta all’opposizione e contemporaneamente rappresenta il più forte alleato del prossimo premier nel cammino verso le riforme: tutto ciò è una vittoria sonante del Cavaliere defenestrato. Berlusconi uscirà bene da questa vicenda, comunque vada: non ha responsabilità di governo, dunque sarà libero di gestire un certo tiro al bersaglio lasciando a Renzi e Alfano la responsabilità delle scelte e della tenuta della maggioranza; toglie sponde agli avversari interni del segretario Pd e alle loro guerriglie; appare tuttavia come l’artefice delle riforme istituzionali.
Forza Italia di lotta e di governo, dunque, in una posizione di rendita garantita. Addirittura accreditata come capace di tramare accordi sottobanco grazie al buon rapporto tra Renzi, Verdini e lo stesso Berlusconi. La minoranza Pd di Civati sospetta che gli azzurri potrebbero fare da puntello occulto al governo. Forse addirittura ipotizza che Alfano appartenga al disegno berlusconiano di sostenere un Renzi che, come detto l’altro giorno in Sardegna, «è intelligente e non è comunista». Questa è fantapolitica, benché sia evidente che l’opposizione parlamentare di Forza Italia non sarà di quelle «senza se e senza ma».
Più complicata la situazione di Angelino Alfano. Se Renzi ha fatto cadere Letta, è perché è certo di avere l’appoggio del Nuovo centrodestra. Per gli alfaniani si tratta di una strada obbligata: sono o non sono i «responsabili» per eccellenza, coloro che hanno abbandonato l’oltranzismo della nuova Forza Italia per garantire stabilità al governo Letta? I loro voti sono indispensabili per Renzi. E Renzi è indispensabile ad Alfano per dargli il tempo di radicarsi come alternativa a Berlusconi.
Tuttavia la rappresentanza governativa del Ncd sarà ridotta rispetto ai 5 ministri inizialmente presenti nell’esecutivo Letta, e questo è già uno smacco per gli alfaniani. Via la De Girolamo, via l’inconcludente Quagliariello (uno dei “saggi” di Napolitano che in 10 mesi ha fatto meno di Renzi in 15 giorni), restano Lupi, Lorenzin e lo stesso Alfano. Se Angelino punterà i piedi per tenere il Viminale oltre che la vice-premiership, al Ncd resterà solo un secondo nome; se invece accetterà di fare il vicepresidente del consiglio senza deleghe, si aprirà lo spazio per mantenere tre pedine nel prossimo esecutivo.
Ma Alfano teme anche il programma di Renzi, che a dicembre subito dopo l’elezione a segretario aveva rivendicato il ruolo del Pd come asse portante del governo e aveva spinto perché Letta sterzasse a sinistra. Per Renzi e la sua “smisurata ambizione”, questo non sarà un esecutivo di emergenza, ma basato su un accordo politico che dovrebbe durare fino al 2018. Alfano invece vorrebbe riproporre lo schema applicato con Letta: un’agenda di pochi punti condivisi, con tempi prefissati, in cui il contributo del Nuovo centrodestra sia ben visibile e non la semplice stampella di un governo purchessia. «Quarantotto ore non bastano per definire compagine e contenuti del governo», ha detto Alfano lasciando ieri il Quirinale. Napolitano gli ha dato ragione allungando i tempi della crisi: oggi pausa di riflessione, domani l’incarico, probabile scioglimento della riserva giovedì. Le 48 ore paventate dal Ncd sono già diventate 96. Una prima palude che Renzi potrebbe evitare incontrando oggi Alfano a Roma, appiccicandogli definitivamente l’immagine del vecchio tattico Dc preoccupato soltanto delle poltrone. In questa fase è proprio il siciliano ad avere tutto da perdere.