Non esiste altro modo onesto dinanzi alla resistenza per impedire l’insediamento di profughi in un quartiere di Treviso e in un piccolo lembo di periferia a Roma Nord che provare (dico provare) a mettersi dentro la pelle dei protagonisti. Non tutti, ne manca sempre qualcuno.
1. I profughi. Hanno attraversato il mare, alcuni spinti dalla guerra, altri cacciati fisicamente, altri in cerca di un posto migliore. Attraversare il mare vuol dire accettare la roulette russa, con una forte probabilità di morire. Sono partiti. Qui hanno trovato una prima accoglienza generosa, acqua, cibo, vestiti, un tetto. Hanno in testa di andare a Nord, dovunque. Sono stati all’addiaccio nelle stazioni. Mani generose li hanno rifocillati. Infine: una casa, c’è una casa. Li portano lì coi pullman e la polizia. E si trovano davanti il rifiuto, sassi, incendi, ostilità. Che hanno fatto di male? Nulla. Africanizzano il Veneto? Africanizzano Roma? E sono respinti. Perché? Se lo chiedono. Naturale per loro raccogliersi in branco per difendersi. Pensavano che la persecuzione dovesse essere religiosa. Non c’entra. Sono africani. Sono poveri, più poveri di quelli in periferia, ma lo Stato dà casa e cibo. Lo ordinano le convenzioni internazionali, e persino qualcosa di più profondo. Non vale. I ragazzi neri pensano e dicono: le nostre famiglie sono in Germania, in Svezia, in Inghilterra. Voi non ci volete? Neanche noi vorremmo essere qui. Lasciateci andare dove stanno le nostre famiglie, il nostro clan, la nostra gente.
Domando. Noi al loro posto che faremmo? Io non lo so. Qualche volta ho pensato: se dessero guerra al mio Paese, e avessi vent’anni, combatterei lì contro l’Isis, contro il tiranno, non scapperei. Ma forse c’è da cercare di guadagnare soldi per spedirli a casa. Sarei disperato, direi: e questo sarebbe il cristianesimo, il cattolicesimo di Roma e la tradizione cristiana?
2. I residenti italiani. Hanno fatto fatica a trovare un bilocale da comprare, hanno speso i loro risparmi, sono in periferia. Esiste un problema di delinquenza. Molti hanno i figli disoccupati, e nessuno fa nulla per loro. Ed ecco che in quel residence di Treviso vengono alloggiati gratis persone che non parlano la lingua, hanno modi di fare fastidiosi, cucinano e gridano, lo Stato gli ha dato persino i mobili gratis. L’ingiustizia brucia. Li vedono arrivare come invasori di un altro colore, di un’altra etnia. Qui i vecchi sono abbandonati, e a quei ragazzi neri donano di tutto. E poi — pensano — senza lavoro bighelloneranno, si trasformeranno in spacciatori. Tutto, li picchino pure, li arrestino, ma non li vogliono. Portateli in centro, nei bei quartieri dove vivono gli intellettuali di sinistra. Se li prenda il Papa nei giardini vaticani, lì no.
Domando. Che faremmo al loro posto? Io non lo so. So però che cosa spererei di fare. Creare le condizioni di accoglienza con altri amici. Prendere in mano la comunità del quartiere, non lasciare alla mano anonima dello Stato e alla filibusta delle organizzazioni criminali di gestire questa situazione, questo tsunami che ci entra in casa. Ma come posso giudicare la reazione della signora anziana che ha paura, che si sente sola? Il guaio è che le famose periferie esistenziali di cui parla sempre Papa Bergoglio non sono un giardino di rose, ma rovi e pattumiera per terra. Non solo nelle strade. C’è una solitudine dove c’è bisogno che accada qualcosa. Una testimonianza, un volto buono. Ma dov’è? “Intanto cacciamo gli invasori, ribelliamoci a questa cecità dello Stato”.
3. I rivoltosi di Forza Nuova e di Casa Pound. Vogliono tenere pura la terra e la razza. Come anarchici situazionisti colgono il vento buono per fare proseliti. Ma che purezza è quella che si scaglia contro i nostri fratelli uomini?
Domando. Che faremmo al loro posto? Non riesco a chiedermelo. Mi verrebbe da dire: sei nato per questo? Per cacciare i “negri”?
4. La polizia. Devono prendere botte e stanno dalla parte di quella gente di periferia, che somiglia a loro, ai posti da dove vengono. Ma vedono anche la miseria e il bisogno di questa gente arrivata da chissà dove, anzi lo sanno: dall’Africa del dolore.
5. Le autorità politiche, il prefetto. Devono rispettare le leggi internazionali, quelle umanitarie, devono tener conto del consenso, senza cui non si governa. Hanno il compito di comporre il disagio sociale che nuovi innesti determinano. Devono far sì che l’Europa si prenda carico dei nostri bisogni da fratelli. Una volta stabilito un insediamento, devono però esercitare anche la forza proporzionata per dare esecuzione alle decisioni, altrimenti vince sempre e solo chi grida di più e più è cattivo.
Insomma, non esiste soluzione à la carte. I problemi vanno affrontati e bisogna conviverci. Ricordo quando trent’anni fa chiesi a Hans Urs von Balthasar se fosse giusto che dovessi aver paura per il destino dei miei figli, rispose tranquillamente: “Ovvio. Non esiste un tempo senza cui non ci sia minaccia di guerra, pulsione di violenza, semina di odio. Adesso c’è la paura della guerra atomica, nel Medio Evo le madri avevano paura delle epidemie e prima delle invasioni barbariche. Ma viene qualcosa di peggio: un umanesimo nuovo, un umanesimo che pensa di fare a meno di Dio e dell’amore”.
Eccoci qua. Vedo la figura del Papa che ci esorta all’amore vicendevole, ad accogliere anche quando è vietato, che la misericordia di Dio è infinita, ed il mondo è incantato. C’è bisogno di qualcuno che fornisca mani, piedi, testa, occhi cuore al Dio della misericordia che pure si è incarnato.
Non è un compito diverso da quello di sempre. La differenza è che è il nostro compito preciso, personale, comunitario, e non quello dell’umanità in generale, della Chiesa universale, dell’Onu e dell’Europa, o della protezione civile: ma nostro, tuo e mio.
Ho letto nei giorni scorsi, il 5 luglio, il racconto che Giorgio Vittadini faceva del metodo di padre Pizzaballa in Palestina e in Siria. Una presenza pacifica, amorosa, pronta a subire la morte per i fratelli. Si può vivere così. Non c’è da inventare, ma da seguire.