E due! A distanza di neppure due anni dal commissariamento della vecchia Alitalia cade, vittima delle cattive prassi stataliste della penisola tricolore, Tirrenia, la seconda grande azienda pubblica di trasporto di proprietà del Ministero dell’Economia.
Persino il copione sembra lo stesso: un percorso di privatizzazione con molti concorrenti alla partenza e nessuno all’arrivo, le casse vuote, la dichiarazione d’insolvenza, il commissariamento, il ricorso alla legge sulle crisi aziendali (già adattata su misura di Alitalia), la prossima ricerca di uno o più capitani coraggiosi, ammesso che si riesca a trovarli.
Uno storico dell’economia in versione moderno Plutarco potrebbe divertirsi a raccontare le vite parallele, e le crisi parallele, di queste grandi aziende pubbliche. I fattori causali delle diverse storie sono identici: inizialmente si tratta di aziende a proprietà pubblica operanti in mercati strettamente protetti; col passare del tempo la legislazione europea impone la rinuncia o la riduzione delle differenti misure protettive (quali l’esercizio dell’attività in regime di monopolio, la possibilità di ricevere compensazioni pubbliche per finalità cosiddette “sociali”, il ricorso alla ricapitalizzazione dell’azionista pubblico per ripianare le perdite di esercizio).
Senza l’apertura alla concorrenza dei relativi mercati, vera cartina al tornasole delle inefficienze aziendali, non si sarebbe notato nulla: gli extracosti derivanti dalla gestione inefficiente sarebbero continuati a ricadere sui cittadini consumatori, grazie alla pratica di prezzi monopolistici (la vecchia Alitalia sulle rotte nazionali), e/o sui cittadini contribuenti, attraverso le sovvenzioni e i ripianamenti pubblici. Invece l’arrivo della concorrenza ha messo subito in luce quanto queste gestioni aziendali fossero inadeguate.
Nel caso Alitalia pochi anni di mercato concorrenziale (anche se solo sulle rotte infra Unione Europea) sono stati sufficienti a far emergere perdite che la legislazione comunitaria non permetteva né di sovvenzionare ex ante, con qualche scusa di copertura di collegamenti in regime di servizio pubblico, né di ripianare ex post attraverso ricapitalizzazioni. In sostanza l’Unione Europea aveva sigillato tutte le vie d’uscita diverse da un’efficiente gestione aziendale, mentre quest’ultima non fu imboccata per veti di parte (sindacali in particolare) e scarsa lungimiranza dello stato azionista.
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L’epilogo di Alitalia, quella vecchia, lo conosciamo tutti. Il caso Tirrenia, invece, è meno noto e i suoi problemi si sono manifestati più lentamente nel tempo, anche se le performance del gruppo marittimo pubblico sono in grado di far sembrare la vecchia Alitalia un esempio da manuale di gestione aziendale: chiudeva i bilanci solitamente in perdita, ma nell’ultimo quinquennio prima del commissariamento le sue perdite ammontavano mediamente a circa il 10% dei ricavi conseguiti (400-500 milioni di euro su poco meno di 5 miliardi di fatturato); il gruppo Tirrenia, molto più piccolo di Alitalia, chiudeva invece i bilanci in pareggio o utile, ma dopo aver iscritto tra i ricavi sovvenzioni pubbliche corrispondenti a circa la metà dei ricavi da mercato. In sostanza ogni due euro incassati dai passeggeri ne riceveva un altro dalle casse pubbliche: circa 200 milioni di euro di sovvenzione complessiva a fronte di un fatturato che non arrivava ai 600 milioni.
Come è stato possibile mantenere questo regime di sovvenzioni nonostante le norme comunitarie e la liberalizzazione? Il regime di mercato nel quale opera Tirrenia è infatti di libera concorrenza, dato che l’Unione Europea ha gradualmente liberalizzato negli anni ‘90 i trasporti marittimi all’interno della comunità. Per il cabotaggio continentale e verso le isole la piena liberalizzazione è entrata in vigore con l’inizio del 1999 e pertanto sulla maggior parte delle rotte coperte da Tirrenia il servizio è svolto anche da imprese private concorrenti le quali non ricevono alcuna sovvenzione pubblica e riescono solitamente anche a generare profitti.
Il regime privilegiato tra lo Stato e la Tirrenia è invece l’eredità di un regime regolatorio risalente a un quarto di secolo prima della liberalizzazione comunitaria: la legge n. 684/74 di riordino del gruppo Finmare, società finanziaria delle partecipazioni marittime dell’Iri in seguito disciolta, aveva previsto che per i servizi di collegamento con le isole maggiori e minori, al fine di“assicurare il soddisfacimento delle esigenze connesse con lo sviluppo economico e sociale delle aree interessate, ed in particolare del Mezzogiorno”, lo Stato potesse concedere sovvenzioni tramite convenzioni della durata ventennale nelle quali sarebbero state indicate le linee da coprire, la frequenza di ogni linea, le tipologie di navi da utilizzare e, infine, le corrispondenti compensazioni.
Si attivava in tal modo un sistema pianificato nel quale l’offerta di servizi da parte del gruppo pubblico non era funzione delle preferenze dei consumatori, e la possibilità di recuperare i costi attraverso i ricavi non era funzione della loro soddisfazione, ma esse dipendevano dalle scelte e dalla generosità dello Stato.
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La successiva regolazione comunitaria (Regolamento CEE n. 3577 del 1992)non è stata in grado di ribaltare questo sistema dato che consente agli stati membri di richiedere in cambio di sovvenzioni agli operatori che svolgono servizi regolari di cabotaggio tra terraferma e isole il rispetto di obblighi di servizio pubblico (copertura di rotte, vincoli di frequenza e capacità, limiti tariffari) che l’armatore non assumerebbe (o non assumerebbe nella stessa misura né alle stesse condizioni) qualora considerasse esclusivamente il proprio interesse commerciale.
L’individuazione del soggetto al quale imporre gli obblighi di servizio ed erogare le relative compensazioni sarebbe in realtà dovuta avvenire da parte di ciascun paese membro su basi non discriminatorie (ad esempio attraverso una procedura di gara), ma questa norma non è mai stata applicata dall’Italia dato che il regolamento comunitario prevedeva anche che i contratti di servizio pubblico esistenti rimanessero in vigore fino alle rispettive date di scadenza.
Nel caso italiano era in vigore nel 1992, data di emanazione del regolamento comunitario, una convenzione ventennale di servizio pubblico tra Stato ed ex Gruppo Finmare siglata nel 1988 e quindi in scadenza a fine 2008. Di fatto questa convenzione ha impedito al regolamento di produrre qual si voglia effetto nel nostro paese in relazione ai rapporti stato-impresa pubblica e ha rallentato lo sviluppo del settore, impedendo un’equa competizione tra gli operatori e perpetuando il regime sovvenzionatorio verso il gruppo pubblico.
Alla scadenza della convenzione, lo Stato italiano avrebbe dovuto avviare procedure trasparenti e non discriminatorie per l’imposizione di obblighi di servizio pubblico sui collegamenti per le isole, in maniera analoga a quanto si verifica per le rotte aeree non economiche. Anziché avviare questa procedura ha invece preferito chiedere all’Unione Europea una proroga del regime concessorio esistente, giustificata dalla necessità di avviare il processo di privatizzazione che è tuttavia appena fallito.
In sostanza, anziché scrivere regole per un corretto funzionamento del mercato il governo ha preferito chiedere a Bruxelles a fine 2008 una deroga allo stop alle convenzioni pubbliche senza gara al fine di rinnovare la convenzione con Tirrenia per un nuovo periodo, quale misura temporanea per sostenere i conti del gruppo armatoriale dopo la privatizzazione.
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È stato avviato in tal modo un processo di privatizzazione “fuori mercato” il quale avrebbe garantito al vincitore di incamerare dallo Stato le sovvenzioni già concesse, pari a circa 150 milioni all’anno, le quali per gli otto annui residui di convenzione prorogata, fanno la bellezza di 1,2 miliardi. In cambio l’acquirente avrebbe dovuto accollarsi i debiti del gruppo, pari a poco più di 600 milioni, metà dei quali contratti in passato per acquistare sei traghetti superveloci che non hanno mai prodotto ricavi (i primi due erano in grado di navigare solo con mare piatto mentre gli altri quattro consumavano talmente tanto carburante che si manifestò immediatamente la convenienza a tenerli fermi in porto).
A questa strana gara si sono inizialmente presentati 16 concorrenti, dei quali tutti meno uno si sono rapidamente dileguati nel percorso. È rimasta Mediterranea holding, cordata “privata” il cui azionista più importante è le Regione Siciliana, col 37% del capitale. Essa ha anche vinto la gara ma all’appuntamento stabilito per sottoscrivere il contratto di cessione con l’attuale azionista non si è presentata, non essendo riuscita nel frattempo a chiudere la trattativa con le banche creditrici.
Così il governo ha preferito interrompere il processo e decidere il commissariamento di Tirrenia e la richiesta dello stato di insolvenza. Per ora al contribuente italiano è andata meglio così, ma per il futuro non c’è garanzia: chissà che non arrivi qualche altro capitano ancora più coraggioso e chieda allo stato di dargli la sovvenzione, ma di lasciare in una bad company pubblica i debiti del gruppo…
In tal modo la “privatizzazione” di Tirrenia si sovrapporrebbe perfettamente a quella di Alitalia nel capitolo finale del racconto “Storie parallele di aziende pubbliche”.