Esistono traguardi nella storia del cinema forse poco conosciuti, slegati dalla logica della distribuzione, ma autenticamente ricchi di immagini che possono insegnare non meno delle pagine di un libro. Di solito si considera il cinema un passatempo, oppure un oligopolio per pochi professionisti, ma esiste un “altro” cinema, fatto di immagini e storie che possono educare gli occhi e l’anima di chi li guarda.
Tra i registi che hanno retto al trascorrere del tempo, tanto da venire inseriti quasi regolarmente nelle proverbiali e inevitabili classifiche della storia del cinema, vi è il danese Carl Theodor Dreyer (autore di Dies Irae e Ordet), che così sintetizzò lo spirito che presiede alle (non molte) opere della propria carriera: «Amo profondamente la vita, tutti gli esseri veramente vivi. E i miei film vogliono essere una serena meditazione, una serena meditazione sul grande mistero della vita, non sulla morte, negazione della vita».
Il suo film Dies Irae vide la luce al tempo dell’occupazione nazista della Danimarca ed è una storia ambientata nell’Europa del Nord nell’anno 1623, quando si incrociano i destini dell’anziana Marthe, accusata, torturata e condannata per il reato di stregoneria, di Absalon, che ne presiede il processo, di Anne, sua (troppo) giovane moglie, e di Martin, figlio di prime nozze di Absalon di cui si innamora – ricambiata – la matrigna. Un’opera che nasconde un affondo dell’autore (cristiano protestante, conviene qui ricordarlo) sulla contraddizione della natura umana, tendente naturalmente al bene ma segnata dal peccato originale, e sull’idea di certo protestantesimo per cui la sofferenza sia tramite per la salvezza, non in terra ma in un indefinito aldilà.
Un altro suo film, Ordet, si svolge in tempi più recenti in Danimarca e racconta poco più di una giornata, fino all’emozionante e commovente finale («È da pazzi per voi voler salvare una vita umana?»), della famiglia Borgen, raccolta intorno all’anziano patriarca Morten: l’ateo Mikkel, il primogenito, che aspetta il suo primo figlio maschio dalla moglie Inger dopo quasi otto anni di matrimonio, il “folle” ventisettenne Johannes, che si dice Gesù Cristo tornato in terra «perché tra i credenti non c’è nessuno che creda veramente», e il giovane Anders, innamorato di una sua coetanea il cui padre è però a capo di una confessione protestante avversa a quella di Morten. Un’opera girata a più di dieci anni dalla precedente e dopo un periodo nel quale Dreyer si era completamente dedicato alla sua grande “incompiuta”: il progetto per un film su Gesù Cristo girato in Terrasanta con attori ebrei («sarebbe il mio capolavoro»), che accarezzò fin dall’inizio degli anni Trenta – qualche tempo dopo la realizzazione del suo primo, grandissimo capolavoro, La passione di Giovanna d’Arco (1928) -e per il quale arrivò a raccogliere nell’arco di 37 anni una sempre più dettagliata documentazione, oltre 250 chili di appunti e fotografie scoperti solo dopo la sua morte (avvenuta il 20 marzo 1968, all’età di 79 anni), nel novembre 1969, in un deposito di Gerusalemme.
Cinema “siderale”, sul mondo “visto dall’alto”, per stare alle parole dello stesso regista che, ancora giovane giornalista interessato a teatro e aeronautica, prima di diventare compilatore di didascalie e sceneggiatore per la Nordisk Films Kompagni, sfidava il pericolo su un piccolo aeroplano da Copenhagen a Malmö («Visto dall’alto il mondo è diverso, più armonioso, più semplice. Dovremmo sempre vederlo dall’alto, il mondo, anche quando siamo in basso»); storie di drammi interni, non ermetiche seppur ardue, rigorose e incandescenti, ma di un’incandescenza che brucia visibilmente nell’io dei personaggi e dove i loro volti, i loro occhi – che non poche volte nemmeno si incrociano ma fissano, paradosso dei paradossi per gli allora vigenti canoni della finzione cinematografica, un punto indefinito del fuori campo – non sono mai stati così “spie” dei segreti movimenti dell’anima.
Racconta Lisbeth Movin, la Anne di Dies Irae: «Mi disse che erano importanti i miei occhi, il mio sguardo; che un volto è il paesaggio più straordinario che si possa scoprire. Aggiunse che il volto di una donna è lo specchio in cui si riflette il mondo che ci circonda. “Devi essere triste – mi diceva – ma non devi dimenticare che la vita palpita come il mare”». Una dichiarazione quasi programmatica, da poetica del cinema muto, che lo stesso regista conferma in un intervento del 1955, poco prima dell’uscita di Ordet: «Non c’è nulla al mondo che possa essere paragonato al volto umano. È questa una terra che non ci si stanca mai di esplorare, una terra di particolare bellezza, sia che possa essere severa o dolce. Non c’è esperienza più grande di quella che consiste nell’essere testimone, nello Studio cinematografico, di come la espressione di un volto sensibile si animi dall’interno e si faccia poesia tramite la misteriosa forza dell’ispirazione».
Drammi di anime, quindi potenzialmente invisibili, ma assecondati da un magistrale uso della macchina da presa che, con straordinari, “spettacolari” movimenti orizzontali combinati di raffinata bellezza – panoramiche che si innestano su carrelli e viceversa – a riprendere schermaglie verbali (e non) in ambienti interni, rende quasi ad un livello fisico, percepibile la tensione che parte dagli sguardi dei personaggi, soprattutto femminili, e nei quali questa tensione viene raccolta («Non il montaggio è lento, ma il movimento dell’azione. La tensione si crea nella calma» risponde Dreyer a chi accusa il suo cinema di troppa “lentezza”). Traiettorie visive paragonabili per splendore ad un particolare di Giotto o a una frase di Mozart, volendo entrare in paragone con altri linguaggi artistici, cui il maestro danese si affida anche quando la stessa sintassi cinematografica potrebbe tollerare stacchi più ortodossi. Movimenti che vanno a seguire, precedere o avvolgere i magnifici protagonisti delle sue opere, quei personaggi che, come è stato detto, «sono sempre come delle prue, sono sempre come monumenti anche nella più semplice delle inquadrature, sono già staccati da se stessi», ombre in bianco e nero palpitanti di vita, abitanti di un cinema che «ci obbliga al momento della visione e al momento in cui, dopo la visione, siamo mutati per sempre, mutanti per sempre, colpiti proprio da questa monumentalità del semplice, monumentalità di quello che siamo sempre stati e che quindi non abbiamo mai avuto il tempo di riconoscere e di vedere e che abbiamo infine la libertà di vedere nella propria, nella nostra schiavitù senza memoria» (Enrico Ghezzi).
Una visione sicuramente consigliata, quella di questi due titoli dreyeriani, cui ci sia permesso di aggiungere in conclusione – per quanto già scritto (e forse ben più) – quello della sua opera successiva, Gertrud (1964), l’ultimo capolavoro girato all’età di 75 anni. La storia di una donna svedese di inizio Novecento, ex attrice di successo in procinto di divorziare dal marito che sta per diventare ministro perché innamorata di un frivolo pianista ben più giovane di lei. Un film che, come scrive Jean-Luc Godard, il fondatore della Nouvelle Vague francese negli anni Sessanta, «eguaglia, per follia e bellezza, le ultime opere di Beethoven» e nel cui finale la solitaria protagonista, ormai anziana, lascia detta ad un caro compagno di studi di gioventù («un’amicizia che non è mai diventata amore») la frase per la sua lapide: “Amor omnia”, “l’amore è tutto”. Scrive al proposito Morando Morandini: «Questa Gertrud – che di se stessa dice: “Ho molto sofferto, e spesso ho sbagliato, ma ho amato” – è il personaggio femminile più forte del cinema di Dreyer e uno dei più grandi del cinema del ‘900».
Stupefacenti poesie per immagini, dal meraviglioso incedere sia nell’occhio che nell’animo di chi guarda, gioielli incastonati nella carriera di un cineasta che ha realizzato i suoi lungometraggi al ritmo di uno ogni decennio a partire dagli anni Venti e da gustarsi ancora oggi con (ammirata) attenzione.
(Leonardo Locatelli)
(Foto: Imagoeconomica)