«Non bevi, non fumi, non sai manco guidare la macchina: ma che te godi della vita, tu?». Siamo in Italia, negli euforici anni Sessanta, quelli del boom. È Ferragosto. Una Lancia Aurelia sport “decappottabile e supercompressa” dall’inconfondibile clacson – almeno per tutti gli appassionati di cinema – sfreccia per le vie deserte della città e della campagna di Roma. L’autista è uno sbruffone viveur di nome Bruno Cortona (Vittorio Gassman, in un ruolo pensato inizialmente per Alberto Sordi), il quale, in cerca di un telefono, si imbatte nel timido e imbranato studente di legge Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant) cui, alla stregua di un Virgilio spavaldo e spaccone, offre un viaggio iniziatico verso Viareggio, tutto nell’arco di una giornata. Ma un amaro finale li aspetta, dietro una curva, in sorpasso. Una manovra che dà il nome al più celebre road movie del nostro cinema, uno dei film di culto della commedia all’italiana che, costato 300 milioni delle care vecchie lire, ne incassò oltre due miliardi dopo un inizio in sordina (a Roma la sera della prima solo una cinquantina di paganti erano in sala).
Un’opera il cui successo proseguì anche in America, dove venne distribuito con il titolo Easy Life, sorprendentemente simile a quello di una pellicola-manifesto della controcultura americana che segnò l’inizio di una nuova stagione della storia del cinema, Easy Rider. E non per un semplice caso, come ebbe a dichiarare il regista e attore Dennis Hopper: «Ho girato nel ’69 Easy Rider prendendo lo spunto dal Sorpasso. Mi avevano affascinato quei due uomini sulla strada…».
Ecco come ci piace ricordare Dino Risi, scomparso nel pomeriggio di ieri, sabato 7 giugno, nella sua casa di Roma all’età di 91 anni (era nato a Milano il 23 dicembre 1916), uno dei grandi maestri del nostro cinema, l’esponente più cinico e disincantato tra i registi legati alla commedia all’italiana (vale a dire Mario Monicelli, Luigi Comencini, Pietro Germi, Ettore Scola e Luigi Zampa), «il Billy Wilder di casa nostra» come lo definì il decano dei critici nostrani, Morando Morandini. Figlio di un medico, una laurea in medicina, psichiatra mancato, intraprende la strada del cinema nel 1940 come aiuto-regista di Mario Soldati e Alberto Lattuada: «Una certa cialtronaggine, un certo vivere alla giornata è abbastanza nel mio carattere… Volevo fare lo psichiatra… sono stato sei mesi al manicomio di Voghera e poi ho detto: qualunque cosa, ma non vivere così. Vigliaccamente ho abbandonato. E allora il cinema è stato la mia salvezza».
Durante la guerra un’epatite gli evita di essere spedito sul fronte russo, riparando poi a Ginevra dove segue i corsi di regia del belga Jacques Feyder, l’autore de La kermesse eroica (1935). Al rientro si dedica al giornalismo e alla critica cinematografica sulle colonne di Milano Sera, stende qualche sceneggiatura e inizia a girare documentari industriali e cortometraggi, tra cui Il siero della verità e Barboni e cortili, che nel 1946 si segnala a Venezia con una menzione speciale. Cede poi al produttore De Laurentiis il suo primo soggetto, Suor Anna, che diventa, su sua sceneggiatura, il film Anna (1952) per la regia di Lattuada.
Dello stesso anno è la sua prima opera da regista, Vacanze col gangster, anche se è Il segno di Venere (1955) a venire considerato da molti il suo vero esordio (con 506 milioni di incasso!), avendo a disposizione un cast all star, italianamente parlando: Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Vittorio De Sica, Sophia Loren, Raf Vallone, Franca Valeri e Tina Pica («C’erano tutti i migliori del tempo e tra sapore neorealistico e commedia la storia funzionava»).
Il secondo, grande successo al botteghino (costato 62 milioni, ne incassa quasi 700) è Poveri ma belli (1956), favola romanesca e proletaria, quintessenza della commedia all’italiana, che costituisce un trampolino di lancio per un gruppo di straordinari attori esordienti (Marisa Allasio, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Alessandra Panaro e Lorella De Luca), senza dimenticare Mario Carotenuto, uno dei più apprezzati caratteristi del nostro cinema. Successo confermato dai due seguiti, sempre diretti da Risi, Belle ma povere (1957) e Poveri milionari (1959), altrettanti grandi trionfi di pubblico. Della fine degli anni Cinquanta è anche Venezia, la luna e tu (1958) con la coppia di mattatori formata da Alberto Sordi e Nino Manfredi, con il primo nel ruolo di un improbabile gondoliere.
Se Sordi è al centro delle due pellicole successive, Il vedovo (1959) e Una vita difficile (1961), uno dei suoi film più cupi, e pur lavorando altre tre volte con Nino Manfredi in Operazione San Gennaro (1966), Straziami ma di baci saziami (1968) e Vedo nudo (1969), il vero, grande sodalizio della carriera di Risi è quello con il suo grande amico Vittorio Gassman, allora proveniente dalla premiata esperienza con Mario Monicelli (I soliti ignoti, 1958, e La grande guerra, 1959, vale a dire due tra i traguardi più alti della commedia all’italiana) e con il quale gira 16 film. Tra questi il già ricordato Il sorpasso (1962), nel quale molti dei dialoghi sono dovuti alle istrioniche capacità di improvvisazione del “mattatore” direttamente sul set, seguito da La marcia su Roma (1962), dai 20 episodi de I mostri (1963), un classico del genere, e da In nome del popolo italiano (1971), tutti in coppia con Ugo Tognazzi, e Profumo di donna (1974), l’adattamento de Il buio e il miele di Giovanni Arpino grazie al quale Gassman vince la Palma d’oro per il miglior attore al Festival di Cannes del 1975 – oltre al Nastro d’argento, al David di Donatello e alla Grolla d’oro – mentre la pellicola viene nominata all’Oscar per il miglior film straniero e Risi per la migliore sceneggiatura.
Un premio che quasi vent’anni dopo finisce nelle mani di Al Pacino per il ruolo dell’ex colonnello cieco Frank Slade nello sbiadito e ultimamente insipido remake americano del film (Scent of a Woman – Profumo di donna, 1992, Martin Brest): laddove Risi carica di percepibile rabbia e malinconia il “male di vivere” che caratterizza il personaggio del capitano Fausto Consolo, il rifacimento USA non fa che smorzare o annullare i possibili toni polemici di una pellicola che infatti si ricorda solo per la presenza di Pacino (con buona pace di tutti comunque perdente nel confronto con Gassman: vedere per credere). Termina qui la produzione maggiore di Risi.
Grande appassionato dei racconti di Cechov, alla fine degli anni Settanta torna, con Scola e Monicelli, al film a episodi sulla scia del suo grande successo e ancora in coppia con i fidati Gassman e Tognazzi (I nuovi mostri, 1977), mentre negli anni Ottanta si dedica principalmente alla televisione, trovando anche il tempo di girare Sono fotogenico (1980, passato fuori concorso a Cannes) con Renato Pozzetto, che, ancora con Gassman e Tognazzi, già aveva diretto in Telefoni bianchi (1976). Nel decennio successivo pubblica Italiani siate seri e Versetti sardonici, ritrova per l’ultima volta Gassman in Tolgo il disturbo (1990), malinconica apologia sulla vecchiaia, e gira Giovani e belli (1996), un trascurabilissimo tentativo di aggiornamento del suo classico Poveri ma belli con Anna Falchi al posto di Marisa Allasio.
L’ultimo, grande riconoscimento pubblico arriva nel 2002, quando gli viene conferito il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia («Ci voleva un direttore della Mostra tedesco [Moritz De Hadeln, ndr] per premiare un regista italiano!»). Dopo Fellini e Antonioni, adesso che anche Risi se n’è andato, davanti alla sua ricchissima eredità («Il cinema è come la vita, ma senza le parti noiose» andava asserendo), vale davvero la pena di spronare la nostra memoria di appassionati, alla maniera di Bruno Cortona con la sua mitica Aurelia: «Vai, cavallina, vai!».
(Leonardo Locatelli)