Nella lunga e sofferta marcia di avvicinamento al 10 aprile, quando Silvio Berlusconi diventerà un leader politico a mezzo servizio causa arresti domiciliari o servizi sociali, Forza Italia continua a inanellare giornate cariche di confusione. Il problema sta nel gestire la linea ondivaga che caratterizza il partito: alleato con il governo nell’approvare le riforme, all’opposizione del governo nella gestione quotidiana del potere. Ora che ci si avvicina alla quarantena per il leader, ma soprattutto al voto europeo, gli uomini del Cavaliere si interrogano su quale sia la linea più redditizia quanto a voti. Domanda alla quale nemmeno Berlusconi sembra avere una risposta univoca.
Qualche giorno fa l’ex premier ha fatto trapelare tutta la sua insoddisfazione per il modo con cui Renzi sta maneggiando la partita delle riforme, senza accennare al contributo di Forza Italia, come se i voti di un partito di opposizione fossero un fatto scontato, normale, nell’ordine delle cose. Renzi si intesta tutti i meriti, Berlusconi fa la figura del portatore d’acqua al mulino altrui mentre il suo resta a secco. I sondaggi confermano che i consensi degli azzurri veleggiano tra il 20 e il 22%, risultato tutt’altro che lusinghiero: Forza Italia uscirebbe dalle urne europee come il terzo partito italiano, dopo Pd e M5S, e il sogno di attingere il 37% nella prossima competizione nazionale rende sempre più necessario un nuovo accordo con gli arcinemici Ncd, Udc, popolari, eccetera, cioè la galassia centrista e moderata ben decisa a non ammainare bandiera.
Così, dopo l’uscita del Cav, ecco il capogruppo al Senato Paolo Romani che sceglie il pulpito di Repubblica per avvertire Renzi: il premier sta introducendo novità all’assetto riformatore concordato, dunque è necessario un nuovo incontro – e un nuovo accordo – tra il premier e il Cav per rimettere a punto la road map delle riforme. Quello di Renzi sarebbe un «tradimento» dei patti cui gli azzurri sono invece rimasti fedeli e che, a questo punto, richiedono una rinegoziazione. Il messaggio è chiaro: Renzi non può attribuirsi tutti i meriti dei cambiamenti istituzionali né può trattare Forza Italia come un gruppo fiancheggiatore di serie B.
Perciò, se Renzi dice «avanti con il Senato» (il disegno di legge dovrebbe essere varato domani) i berlusconiani ribattono invece «avanti con l’Italicum» perché «invertire Italicum e ddl sul bicameralismo non era nei patti». Parallelamente Ncd chiede maggiore coinvolgimento nelle scelte riformiste, che devono partire da un accordo di maggioranza e poi estendersi all’opposizione, con un percorso diametralmente opposto a quello seguito finora. Così il depotenziamento del Senato ritorna in discussione (e con esso anche l’impianto della legge elettorale) mentre fanno capolino le aspirazioni presidenzialiste del leader Pd.
Ma c’è un secondo aspetto che motiva la svolta azzurra, ed è la gravissima crisi interna. Crisi di leadership di Berlusconi. Scaricare su Renzi e le sue monellerie serve a coprire i dissidi interni, le insofferenze verso il «cerchio magico» che circonda il Cav, le indecisioni sulle candidature, i veti incrociati, le contrapposizioni tra la vecchia guardia che detiene tanti voti «di apparato» ma nessuno slancio innovatore e le novità che Berlusconi sollecita ai Club e alle forze più giovani, capaci di riconquistare i consensi perduti.
Per ora, la strategia berlusconiana è di richiamare in servizio «colonnelli» già considerati sull’orlo della pensione come Mastella e Storace. Il passo successivo è quello di candidare i «signori delle preferenze» come Fitto (e forse Scajola) in attesa di un accordo con Alfano, la Lega e i frammenti moderati. D’altra parte, Alfano Casini e Mario Mauro sono davanti a un difficilissimo dilemma: correre assieme o separati il prossimo 25 maggio? La legge elettorale europea è proporzionale, quindi fornirà esattamente il peso delle forze in campo senza premi di maggioranza, ma impone uno sbarramento del 4 per cento che penalizza i piccoli. Fra dieci giorni si comincerà a sciogliere i primi nodi.