Mancava un verdetto, questo è arrivato nei minuti finali del campionato: Parma in Europa League e Torino fuori per un punto e con mille rimpianti. Quelli legati all’incapacità di gestire lo scontro diretto che, una settimana prima, avrebbe potuto già chiudere definitivamente la pratica. Quelli legati all’autolesionismo evidenziato in una partita come quella contro la Fiorentina, che aveva tutto per essere favorevole ai granata: dalla pancia piena degli avversari allo storico gemellaggio tra le tifoserie, fino alle intese cordiali tra Urbano Cairo e Diego Della Valle. C’è stata anche l’opportunità del rigore nei minuti di recupero per mantenere il sesto posto. Alessio Cerci l’ha sprecata calciando in maniera imbarazzante e piangendo tutte le lacrime a sua disposizione a fine gara. Verdetto ingrato ma comunque giusto, perché sia Parma sia Torino avevano dimostrato nel corso del campionato di avere tutte le carte in regola per aspirare all’Europa, per continuità di rendimento e per solidità del collettivo. Il Parma ce l’ha fatta in virtù di una straordinaria serie positiva, interrotta a fine marzo dalla Juventus, e della capacità dell’ambiente di metabolizzare in fretta le sconfitte che erano improvvisamente arrivate, anche in presenza di un calo della lucidità. Il giusto premio per un allenatore serio e bravo come Roberto Donadoni, così poco valorizzato nel calcio italiano per una ritrosia innata che gli impedisce di godere di buona stampa. Basti vedere come, oltre ad aver riportato il Parma tra le grandi, ha saputo gestire una patata potenzialmente bollente come Antonio Cassano. A Giampiero Ventura la soddisfazione di aver consegnato il Torino all’alta classifica, di aver fatto rivincere a un giocatore granata (Immobile) la classifica marcatori e di vederlo convocato, insieme con Cerci e Darmian, dall’Italia di Cesare Prandelli.
Ultimo turno per il resto inutile, a meno di non voler credere a un Milan ancora in corsa per l’Europa League. Ha registrato i 102 punti della straordinaria Juventus, il crollo psicologico definitivo della Roma, i rimpianti del Catania che, con Pellegrino in panchina, ha colto quattro vittorie in sei gare, comunque inutili per la salvezza. Una situazione che ha spinto molti a invocare una riforma del torneo, considerando troppe le venti squadre per poter mantenere alta la tensione fino all’ultimo. Obiezione cui ribattere che anche in Premier e Liga sono a venti, eppure hanno deciso tutto all’ultimo, mentre nella Bundesliga stravinta dal Bayern con larghissimo anticipo le partecipanti sono invece diciotto. L’eccesso di squadre può essere un problema ma non è “il” problema dell’impoverimento del calcio italiano.
Sul fronte della passione, il sempre più ampio asservimento alla televisione – con le partite spalmate all’inverosimile nel corso della settimana – ha condotto a un’assuefazione da eccesso di offerta che ha cancellato la parola “evento”. Sul fronte tecnico, più che le venti squadre il problema pare piuttosto risiedere in una serie A in cui i giocatori italiani rappresentano appena il 40%. Va bene una riduzione, per elevare il livello. Ma questo viene elevato anche da stranieri di livello e non dalla manovalanza che piomba dalle nostre parti, impedendo ai giovani di avere una chance per emergere. Però gli stranieri di livello arrivano se ci sono appeal e soldi, e questo possono garantirlo soltanto società forti e impianti decenti, come dimostrano le grandi d’Europa. E l’Italia è troppo indietro per sperare di risolvere il problema in poco tempo. Sarebbe già un successo, comunque, cominciare ad affrontarlo.