«3. It’s impossible to tell you what I’m going to do except to say that I expect to make the best movie ever made». Niente di più che una riga e mezza, una brevissima affermazione tra la quindicina che occupa un intero foglio di note di produzione – per la verità ancora abbastanza generiche – datato 20 ottobre 1971. Il film in questione non è mai stato girato, quindi non c’è niente che vi siete persi o con cui non vi siete ancora confrontati. Il rimpianto però cresce (e parecchio!) quando si scopre che l’estensore di questo dattiloscritto – esposto lo scorso autunno tra altri cimeli all’interno di una bellissima mostra ospitata al Palazzo delle Esposizioni di Roma e a lui dedicata – è il grande regista statunitense Stanley Kubrick, nato a New York, nel quartiere di Bronx, giusto 80 anni fa, il 26 luglio 1928 e scomparso improvvisamente domenica 7 marzo 1999 nella sua dimora di Childwickbury a St. Albans in Inghilterra. L’opera a cui fa riferimento è il suo Napoleon, progetto a lungo inseguito ma mai realizzato, per il quale il voracissimo e perfezionista cineasta aveva già disposto di girare oltre cortina le sequenze degli scontri tra gli eserciti napoleonici e quelli avversari, arrivando a chiedere quarantamila uomini dell’esercito rumeno come comparse all’allora dittatore Ceausescu.
E questa non è che una delle singolari curiosità relative alla preparazione di questo film, forse quella solo a prima vista più eclatante. Chi avesse invece avuto l’occasione di soffermarsi nella sezione della mostra dedicata a questa grande “incompiuta” kubrickiana si sarebbe potuto imbattere in quello che aveva tutta l’aria di un piccolo vecchio schedario a cassetti da biblioteca. Ma in questo caso le cartelle in cartone, che il pubblico aveva la possibilità di scorrere, invece di riportare titoli di libri, nomi di autori e collocazione, erano riempite da minuziose annotazioni relative alla cronologia – in alcuni casi addirittura giornaliera (!) – della vita di Napoleone Bonaparte e dei personaggi a lui in qualche modo legati, identificati ciascuno da una linguetta di colore diverso. Uno schedario frutto del lavoro commissionato ad alcuni studenti dello storico Felix Markham, professore a Oxford e uno dei maggiori esperti napoleonici mondiali. E si badi che tale strumento costituiva solo una delle fonti per la successiva stesura della sceneggiatura definitiva del film, nella continua ricerca della autenticità, della perfezione, della verità storica assolute, un aggettivo che pensiamo piacesse molto al regista. Ricerca accompagnata dalle domande più (apparentemente) disparate: «Fu festeggiato il Capodanno del 1799? Quanto costavano una caramella, una pagnotta, un’abitazione nella valuta del tempo e confrontandoli con l’odierna? Come funzionava il sistema di telegrafo luminoso dell’epoca? Al tempo di Napoleone c’erano giornalisti e corrispondenti di guerra?».
Sulla parete vicina si sarebbe potuto invece vedere quello che sembrava una sorta di grande poster, rivelatosi un vero e proprio piano dettagliato dell’opera, con l’indicazione cronologica di tutte le singole inquadrature, le varie sequenze e la durata parziale, progressiva e totale indicata ai lati di ciascuna: il film non esiste e non esisterà mai (non ne è stato girato nemmeno un singolo fotogramma), ma sappiamo con assoluta precisione quanto sarebbe durato e quali aspetti avrebbe descritto della parabola umana del grande còrso… Fatti salvi i cambiamenti che il periodo delle riprese e della post produzione avrebbero potuto apportare, come insegna la storia della genesi dei capolavori del regista, tutto era già passato nella più esclusiva “sala cinematografica” del mondo: la testa di Stanley Kubrick, il «regista più titanico del dopoguerra, il regista che più ha tentato di curvare il cinema a un suo volere e sempre affrontando nei temi stessi dei film, come principale ossessione, lo scacco di questa volontà di controllo e di curvatura. E ci mancherebbe altro: il cinema è come un insieme di fiumi, come un incrocio di cavi, di condotti, di nervature cerebrali e noi lo incrociamo con due, tre, quattro poveri codici. C’è ancora chi si ostina a considerarlo “una” narrazione, a seguire “la” trama invece che le trame e le trame che ci sono nel più stupido e anonimo dei momenti di un qualunque film. Con questo si è scontrato frontalmente, straordinariamente, con occhio da ciclope, da HAL 9000, con un solo occhio, la genialità di Stanley Kubrick» (Enrico Ghezzi).
Dunque un occhio da ciclope, un solo occhio. E in principio ci fu infatti la fotografia, come ci ricorda anche il critico inglese (e suo amico) Alexander Walker: «Era molto chiuso e introverso. Se vedeva gente venire verso di lui in un corridoio si metteva contro il muro per farla passare. Ma se gli davano una macchina fotografica e guardava nel mirino, diventava il padrone di tutto ciò che osservava. Io sono convinto che guardare attraverso un mirino per Stanley significò quella possibilità di controllo che influenzò tutta la sua vita e il suo modo di essere. Il suo scopo era controllare: l’otturatore, la luce, l’inquadratura, la composizione, tutto l’insieme». Dopo tutto il cinema non è forse il passo successivo della fotografia, il suo sogno (realizzato) di potersi ultimamente liberare dalla fissità dello scatto? Come affermava Jean-Luc Godard dai famosi Cahiers du Cinéma: «Il cinema è la verità 24 volte al secondo». Vale a dire che l’effetto speciale è già lo strumento stesso.
Ad ogni modo, al di là della sterminata biblioteca accumulata nel corso degli anni dal regista su Napoleone – circa cinquecento volumi, una delle raccolte private più vaste al mondo sull’argomento – chi volesse ammirare quello che resta, almeno come ideale campo visivo, di questo magnifico miraggio può rifarsi alla sua “prova generale”: Barry Lyndon (1975), ovvero il film più sottovalutato e incompreso della filmografia kubrickiana, uno dei più stupefacenti raggiungimenti della settima arte, il cui motivo di interesse è magnificamente sintetizzato dall’autore stesso: «Si potrebbe immaginare un film dove le immagini e la musica fossero utilizzate in modo poetico o musicale, dove si avesse una serie di enunciati visuali impliciti piuttosto che delle esplicite dichiarazioni verbali». Riecco, dopo l’affascinante esperienza audio-visiva di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968), opera già affrontata su queste colonne (qui), ancora la potente suggestione del cinema muto, dell’immagine cinematografica che fa riassaporare la forza espressiva del muto dentro l’opera di un genio che, identicamente, riusciva pure ad intercettare prima di altri i cambiamenti delle avanguardie, spiazzandole con i suoi capolavori.
(Leonardo Locatelli)