La nuova recessione tecnica dell’Italia è colpa di Renzi definitivamente “unfit”? No – il vostro modesto analista conferma la sua opinione personale e dialettica – se si osservano i dati usciti per l’intera eurozona, sempre più nostra casa comune: il rigore imposto dal “cancelliere d’Europa” Angela Merkel a tutti i partner su tutti i parametri – finanze pubbliche, euro, prezzi e poteri d’acquisto – morde anchel’Azienda-Germania. Tanto che perfino lo schivo e tecnocratico ministro italiano dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si è concesso una battuta “renziana” contro il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, sgradevolmente “tardivo” nel voler aumentare segnaleticamente gli stipendi ai suoi funzionari.
Vedremo ora quali segnali vorrà o potrà lanciare domani Mario Draghi al termine del consiglio direttivo della Bce: ma temiamo che l’esperto super-banchiere centrale dell’euro non riuscirà a essere molto più incisivo del late comer alla guida dell’esecutivo italiano. Anche per lui, in fondo, sarà più facile una nuova-letterina-rimbrotto allo scapigliato Renzi (e in filigrana a una Francia sempre più affannata e nervosa) che affrontare la signora Merkel o altre “vacche sacre” della stabilità rigorista fra Bruxelles e Francoforte.
Il premier-plenipotenziario italiano, certamente, resta responsabile della lentezza nel trasformare in riforme vere – anche solo a livello early stage – le lenzuolate di slides quasi quotidianamente somministrate agli italiani e ormai pericolosamente somiglianti ai tanti “contratti con gli italiani” sventolati dall’ex Cavaliere. Renzi sarebbe tuttavia sveltissimo nel trattenere tutti i critici sul punto: il problema strutturale del Paese, lo ripete ormai tre volte al dì, è posto da tutti coloro che si oppongono ai progetti di riforma. Che vi si oppongono veementemente proprio perché le riforme “mordono”: magistrati e addetti ai bagagli a Fiumicino; Cgil e Confindustria; grillini eternamente in piazza ed editorialisti che eternamente bocciano il premier di turno, a meno che non sia un editorialista temporaneamente a Palazzo Chigi.
Non c’è dubbio, peraltro, che i veri frenatori “interni” del premier siano anzitutto in Parlamento e, poco lontano, nella alte burocrazie: ed è per questo che – “politique d’abord” per un premier costituzionalmente anti-tecnico – Renzi ha messo subito al fuoco le riforme istituzionali, difficilissime, impopolari perché apparentemente incongruenti con l’emergenza economica. Ma il “drive” di Renzi, fin dall’inizio, è questo e solo questo: rianimare il sistema-Paese – e soprattutto ripoliticizzare il dissenso anti-sistema di un quarto dell’elettorato – con lo sradicamento e il ricambio di un’intera classe dirigente.
L’aut aut del premier sta diventando oggettivamente brutale: in Renziland non c’è spazio per un classico giornalista-senatore “comunista” come Corradino Mineo ma neppure per un presidente emerito della Commissione Ue come Romano Prodi. Draghi non è che un “civil servant”, Massimo D’Alema un residuato bellico, Enrico Letta un concorrente nato morto. I professori stiano nelle università o scrivano sui giornali. I soli interlocutori sono i leader politici confrontabili sui numeri in Parlamento: Silvio Berlusconi e Beppe Grillo.
All’interno della maggioranza e dell’esecutivo, il ministro degli Esteri Federica Mogherini serve per ricordare al neo numero uno di Bruxelles, Jean-Claude Juncker, che differenza passa fra Italia e Lussemburgo fra i sei paesi fondatori della Ue (Polonia-chi?). Il modello-Spagna? Ma se hanno dovuto mendicare gli aiuti economici come la Grecia, li abbiamo aiutati anche noi.
Non sappiamo se tutto questo c’entri e come con la “recessione tecnica” o – viceversa – con lo stimolo alla ripresa. Però qualcuno che si faccia avanti a dire “Lo faccio io, ma non come Renzi” e ottenga la fiducia in Parlamento non si vede. È un fatto, non un giudizio.