Una volta le “primarie” erano le scuole elementari, ora sembrano indicare i vertici della vita politica. Potrebbe essere un buon auspicio, all’insegna del “nomen est omen”, un presagio di ripresa della vita politica a partire dagli elementi fondamentali, o almeno da uno, la volontà popolare. Ma è proprio così?
Per il momento, le primarie sono prettamente un fenomeno della sinistra, visto che il centrodestra le ha solo annunciate, ma mai fatte. Stanno diventando, perciò un argomento elettorale, una misurazione del tasso di democraticità degli schieramenti, un confronto tra chi fa scegliere agli elettori e chi fa calare le cose dall’alto.
Il modello si richiama a quello più famoso degli Stati Uniti, ma il paragone è azzardato, date le grandi differenze istituzionali e politiche con quel Paese. Tuttavia, anche in Italia le primarie si possono essere strumento utile per scegliere il candidato da contrapporre al leader dell’altro schieramento in un sistema, come quello della attuale legge, che prevede sostanzialmente due fronti contrapposti.
Non credo però che sia realistico esaltarle come strumento di “democrazia diretta” contro la gestione partitica d’apparato, perché l’apparato viene solo limitato, non esautorato. Infatti, vi è chi attribuisce la vittoria di Bersani su Renzi proprio a questa influenza e che, se D’Alema e Veltroni non fossero stati dissuasi dal presentarsi, le cose per Bersani sarebbero state meno semplici. D’altra parte, questo tipo di “interventi” si sono verificati anche nell’indizione delle primarie per la Lombardia.
Il discorso diventa più complesso di fronte alla decisione del PD di estendere le primarie alla scelta dei candidati al Parlamento. Per cominciare, si dà l’impressione di inseguire le parlamentarie di Grillo, insomma un “me-too product”, come dicono quelli del marketing, ma probabilmente lo si è ritenuto un prezzo del tutto accettabile pur di poter gettare in faccia al centrodestra la propria democraticità. Poi, i problemi tutto sommato sopportabili delle primarie per la scelta del leader diventano più pesanti nella selezione dei candidati al Parlamento, come stanno dimostrando le parlamentarie di Grillo.
Inoltre, i criteri per la partecipazione attiva e passiva devono essere, ragionevolmente, più stretti. A quanto risulta al momento, potranno votare solo gli iscritti al PD e chi dichiara di votare PD tra chi ha votato nelle precedenti primarie; i candidati saranno scelti essenzialmente dagli organi di partito, sia pure in modo aperto e con rispetto delle “quote rosa”, altra moda del momento.
L’aspetto che lascia più perplessi, tuttavia, non è tanto riferito ai meccanismi di selezione e quindi alla rappresentatività dei candidati, quanto quello della responsabilità. Nei partiti tradizionali, la base degli iscritti eleggeva dei delegati, che partecipavano ai congressi, dove veniva eletto il segretario e il possibile leader alle elezioni. Paradossalmente, questo sistema rispecchia di più, rispetto alle attuali primarie, quello americano, basato infatti su un voto popolare nei vari stati che determina i cosiddetti “voti elettorali”, che di fatto eleggeranno il Presidente.
Nel sistema dei partiti tradizionali,era possibile stabilire le “appartenenze”, quindi le posizioni politiche e i collegamenti fuori dal partito, di ciascun candidato. Se qualcuno dava cattiva prova di sé, era relativamente facile trovare il responsabile, diretto o indiretto, della sua candidatura. Ciò accade anche nel partito monocratico di Berlusconi, cui vengono attribuiti i fatti, o secondo altri i misfatti, di certi personaggi da lui voluti in lista.
Nel sistema delle primarie, a chi risale la responsabilità delle scelte? E’ vero che “vox populi, vox Dei”, ma ciò accade nelle votazioni per acclamazione, come per esempio nella elezione a vescovo di Milano dell’allora governatore Ambrogio. Non mi pare il caso dei candidati del PD, né mi sembra infondato il dubbio che la forma stia prendendo il soppravvento sulla sostanza.
Tutto da buttare, quindi? No, solo non cerchiamo di dare risposte prima di porci le domande. Vorrei ricordare la citazione di Emma Bonino riportata in un precedente articolo: “Se una domanda c’è, chiedo che si espliciti, che si faccia viva.” Non credo che la domanda reale degli elettori sia quella di poter scegliere leader e parlamentari, magari conoscendo qualcosa del loro curriculum, ma senza sapere in nome di cosa veramente andranno in Parlamento, in rappresentanza di chi e per portare avanti che cosa e a favore di chi.
Il contenuto ha bisogno di una forma, ma la forma può vivere senza contenuto, diventando inutile se non dannosa. In assenza di contenuti, il formalismo sta dominando la scena politica e si discute di sigle, di metodi di selezione, di sistemi elettorali, si propinano slogan: “meno tasse”, “anche i ricchi paghino”, “crescita e non rigore”. Istruzioni per l’uso, ma di che cosa?