Il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea, promesso dal premier David Cameron entro il 2017, potrebbe essere indetto già nel prossimo giugno. In questa prospettiva, Cameron aveva inviato lo scorso novembre una serie di richieste all’Ue dirette a modificare le condizioni della partecipazione del Regno Unito, che già gode di una serie di eccezioni ai trattati. Il dibattito all’interno del Paese sull’Ue è infatti molto vivace e, pur propendendo i sondaggi per una vittoria dei sì alla permanenza, il risultato non è del tutto scontato. Il Partito Conservatore è molto diviso al suo interno e nello stesso esecutivo non mancano gli euroscettici.
Negli scorsi giorni è arrivata la risposta dell’Ue con una lettera agli Stati membri del Consiglio europeo del suo Presidente, il polacco Donald Tusk, con una proposta di decisione sulle richieste britanniche che dovrà essere discussa nella prossima riunione della seconda metà di febbraio. Il documento sembra piuttosto vago nella sostanza, il che è comprensibile visti gli stretti margini di manovra, non solo per il rispetto dei trattati, ma anche per evitare l’apertura del vaso di Pandora delle richieste degli altri Stati. Il linguaggio “europeese” utilizzato, tra retorica e burocratese, non ne facilita l’interpretazione.
Molti commenti si sono concentrati sulla possibilità per Londra di sospendere, per un periodo di quattro anni, l’estensione dei benefici del welfare britannico ai lavoratori stranieri dell’Unione. Proposta che incontrerà le reazioni negative in particolare degli Stati dell’Europa centrale, a partire dalla Polonia, che ha una consistente emigrazione verso il Regno Unito. Non a caso, Cameron si è già incontrato un paio di volte con i leader polacchi negli ultimi mesi, offrendo sostegno militare a Varsavia, che teme un attacco da parte della Russia.
Le prime reazioni, sia nel Regno Unito che nel resto dell’Ue, non sono state molto calde per la chiara natura compromissoria del documento, tale da lasciare tutti insoddisfatti. Lo stesso Cameron, che evidentemente ha approvato il documento prima della sua emissione, ha dichiarato che vi sono ancora molti punti da approfondire e il primo sondaggio svolto dopo la pubblicazione della lettera di Tusk ha segnalato un aumento dei no all’Ue.
Cameron è sotto attacco non solo del fronte del no, ma anche dell’opposizione laburista favorevole all’Ue, che accusa il primo Ministro di uno spettacolo messo in piedi per il suo partito e di una proposta ben lungi dall’affrontare i veri problemi dei lavoratori e delle industrie britanniche. Nel frattempo, Goldman Sachs ha già previsto per la sterlina un calo del 15% in caso di uscita dall’Ue e in effetti, in vista del referendum, la sterlina si è già indebolita.
In questa situazione, che possiamo definire eufemisticamente in movimento, continuare a parlare di Unione europea sembra sempre più simile a un artificio semantico: sia la lettera di Cameron che il documento del Consiglio delineano una netta distinzione tra gli Stati dell’Eurogruppo e quelli fuori dall’euro. La distinzione parte però da punti di vista opposti, perché per Cameron l’eurozona non coincide, né mai coinciderà, con l’Unione europea, per la quale, anzi, rappresenta un problema.
In un precedente articolo avevo indicato come anche uno Stato dell’Eurogruppo, la Germania, si fosse ritagliato condizioni particolari. Cameron, nel suo discorso di presentazione delle richieste britanniche al Consiglio Europeo, ha citato proprio il controllo della Corte Costituzionale tedesca sulle decisioni di Bruxelles come una facoltà che l’Ue deve doverosamente concedere anche al Regno Unito.
Si configura così un’Unione a geometria decisamente variabile, tanto più se si tiene conto delle sempre più frequenti ipotesi di divisione dell’Eurogruppo in due aree: Paesi “forti” e Paesi non considerati tali. Diventerà sempre più difficile, quindi, quella più stretta unione politica degli Stati europei così avversata dai britannici. “Noi consideriamo l’Unione europea come un mezzo per un fine, non come un fine in sé” e “‘Europa dove necessario, nazionale dove possibile’ come dicono i nostri amici olandesi” sono due frasi molto significative di Cameron.
Nella proposta al Consiglio europeo viene affermato l’obiettivo di una sempre maggiore unione tra i popoli, definito tuttavia compatibile con diversi livelli di integrazione tra gli Stati e ammettendo, inoltre, che alcuni, come esplicitamente il Regno Unito, possano chiamarsi fuori da questo comune obiettivo.
Non appare chiaro come questa differenziazione, pur condivisibile, tra popoli e Stati possa essere gestita concretamente, soprattutto da un’Ue che finora sembra essere stata lontana da entrambi a favore di una burocrazia politica. Perplessità ancor maggiore quando subito dopo si dice che è il principio di sussidiarietà che governa l’Ue e che, quindi, le decisioni devono essere prese il più possibile vicino ai cittadini. La contraddizione con l’attuale realtà deve essere apparsa in tutta la sua evidenza anche agli estensori del documento, spingendoli a proporre una nuova procedura nell’approvazione delle leggi europee. Una proposta di legge può essere rinviata al Consiglio europeo, entro 12 settimane, se le obiezioni a essa vengono da più del 55% dei voti nei Parlamenti nazionali coinvolti nella legge. Questa nuova procedura può essere vista come una risposta a un altro problema sollevato da Cameron: il progressivo distacco tra le istituzioni europee e i cittadini e la mancanza di responsabilità democratica, sentita fortemente nel suo Paese, ma comune ad altri in Europa.
Sarà interessante vedere le modalità di applicazione di questa norma e quale è il ruolo riservato al Parlamento europeo, che dovrebbe, condizionale più che d’obbligo, rappresentare proprio i popoli europei. Non è certamente questo l’unico dubbio sull’Unione europea, come riconosce lo stesso Tusk con il suo amletico: “Essere, o non essere insieme, questo è il problema”.