Il governo delle tre maggioranze rischia di perderne una. La prima con Forza Italia per le riforme istituzionali, la seconda con Nuovo centrodestra e Scelta civica per l’azione di governo, la terza con Sel e frange a cinque stelle per le emergenze più imprevedibili. Matteo Renzi gioca su tre tavoli ma mette a rischio il principale, quello che puntella Palazzo Chigi. È la stampella centrista che manifesta tutta la sua insofferenza.
Il premier fa come certi ragazzini a scuola: finge di non sentire. Ha presentato il Jobs Act come la rivoluzione che riporterà l’Italia al lavoro; ha chiesto al ministro Giuliano Poletti, ex numero 1 delle coop rosse, di metterci la faccia. Poletti ha obbedito ma ha cominciato a rumoreggiare il Pd, azionista di maggioranza. In commissione Lavoro alla Camera sono passati una serie di emendamenti sollecitati dallo stesso partito del premier, in particolare dall’ala più a sinistra, e approvati con l’assenso del governo ma non degli altri partiti (Ncd e Sc). È inevitabile che i leader delle due formazioni minori battano i pugni: in fin dei conti sono indispensabili quanto il Pd per mandare avanti l’esecutivo. Ok alleati, ma la riduzione in schiavitù come schiaccia-bottoni e basta non può essere considerata una strategia politica di successo.
Dunque, Ncd e Sc vogliono farsi sentire. E Renzi che fa? Dopo aver fatto approvare le modifiche impostegli dal suo partito, rifiuta gli aggiustamenti proposti dagli alleati. Anzi, li sbeffeggia con marchio di infamia: tutta campagna elettorale, dice, che ci fa perdere tempo. Che coraggio: come se gli 80 euro (scarsi) per le famiglie più povere non siano una manovra che risente del clima pre-urne. E come se gli altri annunci/proclami renziani non abbiano l’obiettivo di incamerare un bel pacchetto di voti alle europee e alle amministrative del 25 maggio.
Renzi è sbrigativo, fa il furbetto, ma per ora chi la spunta è lui. Perché oggi, alla vigilia del primo voto di fiducia sul decreto lavoro alla Camera, sono gli alfaniani a dover fare le capriole per spiegare la ragione di certe scelte bizzarre, come votare la fiducia per poi cercare di modificare il provvedimento al Senato e ritornare a Montecitorio. Bistrattati da Renzi, non sono in grado di bistrattarlo a loro volta e oggi (come conferma l’ex ministro al Welfare Maurizio Sacconi) saranno costretti ad allinearsi ai voleri del premier.
Il paradosso di questo ping-pong tra le Camere è che siamo alla vigilia della riforma del bicameralismo che toglierà potere legislativo a Palazzo Madama. E il Ncd non trova di meglio che ricorrere proprio al potere legislativo del Senato (che intende eliminare) per rifornire le armi con cui combatte dalla sua trincea.
Resta il fatto che nella maggioranza si è aperta la prima vera crepa. Poletti ha tentato invano una mediazione, ma il problema non è tecnico bensì politico, e l’interlocutore vero è il premier. Strano che l’astuto Renzi non colga il rischio che egli stesso corre. Fare campagna elettorale non è una perdita di tempo alla fine della quale lui potrà riprendere a fare il salvatore della patria: è un momento in cui cercare quel consenso che difetta a Renzi come ad Alfano, l’uno assente alle ultime elezioni politiche, l’altro presentatosi ed eletto in uno schieramento diverso dall’attuale. Se il Nuovo centrodestra ottenesse un risultato poco soddisfacente il 25 maggio, ne patirebbe pesanti conseguenze lo stesso esecutivo.
D’altra parte, Renzi punta il dito contro la propaganda elettoralistica del Ncd per nascondere i problemi interni, come la crescente fronda contraria alle modifiche costituzionali tese a depotenziare il ruolo del Senato. La proposta di Vannino Chiti guadagna consensi. Su questo il premier tace, perché?