C’è stata un’epoca (lunga) in cui il Governatore della Banca d’Italia era l’unica e vera “opposizione della Repubblica” e il 31 maggio era una sorta di giornata penitenziale istituzionale per la politica economica.
Quella grande orazione civile che sono sempre state le Considerazioni finali hanno puntualmente rivolto critiche sia allo Stato, sia al mercato. Hanno fatto autocoscienza sia per la finanza pubblica (un tempo dominante, poi crollata sotto il proprio peso) e poi per la finanza privata, divenuta egemone nell’ultimo quarto di secolo, prima di collassare tra il gigantismo bancario e il turbo-capitalismo dei derivati.
Ma quell’epoca non è mai stata – né avrebbe mai potuto essere – testimone di quanto è accaduto un paio di settimane fa nei palazzi romani del governo dell’economia: quando un gruppo di top manager delle maggiori banche italiane si è riunito nelle stanze del direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, primo collaboratore del ministro Giulio Tremonti. E ha posto un virtuale aut-aut: il sistema bancario italiano non avrebbe garantito la piena sottoscrizione di titoli pubblici se la Vigilanza Bankitalia non avesse dato certezze sul trattamento contabile in bilancio dei bond statali dell’area euro – altamente volatili.
Raccontano che Grilli abbia personalmente sollecitato al Governatore Draghi un provvedimento puntualmente accordato: la sterilizzazione e la variazione di valore nei portafogli titoli ai fini del calcolo del patrimonio di vigilanza. E la norma, di fatto, è una presa d’atto che i mercati rimangono non stabilizzati e “Basilea 3”, cioè il tentativo di sviluppare una finanza di mercato e una vigilanza prudenziale decentrata sugli intermediari, resta inapplicabile (e forse va interamente ripensata).
Il governo (italiano) e le banche “all’italiana” dettano le regole e il più globale dei banchieri centrali non può che aderire. L’exit strategy dei poteri (non quella dei commentatori) procede spedita e l’ex banchiere della Goldman Sachs – tuttora presidente del Financial Stability Board – non è più il candidato di mediazione euroatlantica al vertice Bce. Mentre Tremonti, superministro anti-mercatista per eccellenza, è capace di tagliare gli stipendi agli statali italiani, forzando la mano perfino al suo premier.
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Gli addetti ai lavori non sono quindi rimasti sorpresi che Draghi si sia mostrato nel complesso freddo verso il “suo” sistema creditizio, dopo che nell’ultimo anno era stata invece prevalente una cauta soddisfazione per la tenuta delle banche italiane nel turbine della Grande Crisi. Ma è stato altamente simbolico che la risposta delle banche “partecipanti al capitale” – per decenni un plauso rituale e incondizionato – abbia ribattuto senza mezzi termini su due punti chiave: gli assetti e la governance incentrati sulle fondazioni e l’adozione di Basilea 3.
E chi ha pronunciato la replica è stato quell’Andrea Beltratti che è stato appena eletto al vertice del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, dopo un duro confronto politico attorno alla Compagnia Sanpaolo. Se Draghi ha insistito sull’irreversibilità della nuova vigilanza prudenziale e sulla necessità di rafforzare il patrimonio per aderire a criteri più severi, Beltratti ha nuovamente avvertito che l’impatto macro rischia di essere non trascurabile (in concreto: sono seri i rischi di razionamento del credito alle imprese e di sviluppo stesso delle banche italiane).
Al Governatore che ha rivangato vecchi timori di inquinamento politico del mondo bancario, Beltratti non ha avuto esitazioni a ricordare che se le banche italiane hanno resistito alla crisi lo devono anche al fatto di essere state controllate da fondazioni (cioè, implicitamente: il disastro dei mercati finanziari è stato prodotto dalle banche strutturate secondo il “vangelo mercatista” che Draghi ha sempre predicato con convinzione).
Beltratti, val la pena di notarlo, è stato l’ultimo “banchiere” a certificare il primato di Tremonti su Draghi, rendendogli la prima visita dopo la nomina. Mentre ormai i periodici “lunedì milanesi” del ministro assieme ai capi delle maggiori banche e fondazioni hanno creato una nuova cabina di regia per il sistema finanziario domestico: una direzione nazionale, bancocentrica, virtualmente senza barriere tra pubblico e privato.
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Su questo sfondo, l’apprezzamento del presidente uscente dell’Abi Corrado Faissola e dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, sono parsi parecchio formali: come quello del presidente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli. Mentre l’insistenza di Draghi sulla necessità di una riforma “universale” della finanza globale – appena resa più attuale dalla necessità di temperare il ruolo delle agenzie di rating – è parsa più un’autodifesa personale che un rilancio reale.
A quasi tre anni dallo scoppio della crisi, il diastro ambientale del Golfo del Messico è giunto a fornire una metafora plastica di quanto il liberismo globalista più ortodosso in concreto apra falle velenose impossibili da gestire ex post con il gradualismo riformista.