Un esercito di quasi 3 milioni di persone. E’ l’Istat a rilevare che nel 2011 in Italia sono 2 milioni 897 mila gli inattivi che si dicono disposti a lavorare, ma che non cercano un impiego. Di questi, il 42,6% (circa 1,2 milioni) dichiara di aver rinunciato a cercare perché convinto di non riuscire a trovarlo. Il dato emerso, che rappresenta il livello più alto dal 2004, risulta ancora più preoccupante se messo a confronto con quelli degli altri paesi dell’Unione europea: l’Istat ha infatti mostrato che solo in Italia risiede un terzo dei circa 8,6 milioni di individui che non cercano lavoro pur essendo disponibili a lavorare, “a fronte di poco più del 9% dei disoccupati italiani sul totale dei disoccupati Ue”. Rispetto alle forze lavoro, la quota degli inattivi è dell’11,6%, un dato superiore di oltre tre volte a quello medio Ue (3,6%). Le percentuali degli altri paesi risultano infatti molto contenute rispetto alla fotografia dello scoraggiamento scattata dall’Istat in Italia: Francia 1,1%, Grecia 1,3%, Germania 1,4% e Regno Unito 2,4%.
L’istituto di statistica rileva anche le differenze tra componente maschile e quella femminile, mostrando che “in quasi tutti i paesi dell’Unione europea, le donne inattive disponibili, in rapporto alle forze lavoro, sono in numero significativamente più elevato in confronto agli uomini. Tuttavia nel nostro Paese il divario è più ampio: il 16,8% delle donne rispetto al 7,9% degli uomini (4,5% a fronte del 2,8% nell’Ue)”. Intervistato da IlSussidiario.net, Emilio Colombo, docente di Economia internazionale presso la Bicocca di Milano, spiega che «in una fase di recessione come quella che stiamo attraversando è normale che una parte della forza lavoro smetta di cercare un impiego. Il disoccupato è una persona che non lavora, ma che cerca un impiego, mentre un inattivo non cerca lavoro pur essendo disposto a lavorare».
Quella degli inattivi è una categoria certamente particolare, che non risparmia neanche i giovani tra i 15 e i 24 anni, in aumento (33,9%) rispetto al 2010 (30,9%). Coloro che non cercano ma vorrebbero comunque lavorare sono solamente nel Mezzogiorno circa un quarto della forza lavoro, un numero di oltre sei volte superiore a quello del Nord. «Il tema è certamente importante – continua a spiegare Colombo -, e in una fase di recessione come questa assistiamo essenzialmente a due fenomeni che risultano complementari: da una parte ci sono coloro che smettono di cercare un’occupazione perché sono effettivamente scoraggiati, mentre dall’altra c’è tutta una parte di giovani che decide di non mettersi alla ricerca di un lavoro perché ritiene la situazione attuale troppo negativa, quindi decide per esempio di concentrarsi sullo studio. Parliamo dunque sempre di inattivi, ma con messaggi chiaramente differenti: nel primo caso abbiamo persone che di fatto si tirano fuori dal gioco, mentre nel secondo persone che in qualche modo sono pronte a rientrare».
Analizziamo dunque il dato anche dal punto di vista delle imprese e, come conferma Colombo, guardando i risultati che emergono dall’indagine Excelsior sulle previsione occupazionali delle aziende, «si può notare che circa un terzo delle assunzioni previste riguarda quelle figure professionali di difficile reperimento». Una situazione che a prima vista potrebbe quindi risultare paradossale: da una parte un esercito di inattivi e scoraggiati che non cerca lavoro, ma è disposto a lavorare, dall’altra imprese che cercano personale senza però riuscire a trovarlo. «Non si tratta in realtà di un paradosso – spiega Colombo – perché cambiano sia il mercato del lavoro che quello dei beni, quindi le imprese chiedono competenze diverse rispetto a quello che offre il mercato. Certe competenze inoltre non si acquisiscono facilmente, perché in molti casi servono esperienza e una formazione che spesso può essere fatta solamente “on the job”».
Secondo Emilio Colombo, la riforma del mercato del lavoro che individua l’apprendistato come canale privilegiato per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro «cerca di risolvere anche se parzialmente il problema: il giovane studente, che possiede già una certa formazione, la completa in azienda con un contratto di apprendistato, e acquisisce come dicevo “on the job” quelle competenze che sono le stesse richieste dal mercato».
I problemi sono però evidentemente molto più ampi, e «sono tanti gli attori che dovrebbero essere chiamati in causa per risolverli. Come le università, con corsi che siano il più possibile orientati verso una formazione che sia realmente spendibile sul mercato del lavoro, perché c’è sempre più bisogno che si arrivi il più possibile a un incontro tra domanda e offerta. E’ necessario aumentare l’occupabilità delle persone, e questo riguarda inevitabilmente anche gli “scoraggiati”, che dopo esser rimasti fuori dal mercato per troppo tempo diventano difficilmente occupabili a causa di una perdita di fiducia e competenze. Si possono pensare tante soluzioni, ma stiamo parlando di un problema che certamente non si potrà risolvere nel giro di qualche settimana. E’ un fenomeno che riflette la situazione difficile del Paese, e purtroppo persisterà ancora per parecchio tempo».
(Claudio Perlini)