Al giro di boa che le immette nel terzo decennio di una vita istituzionale già molto densa e articolata, le Fondazioni scoprono di essere ancora lontane dalla terraferma della sussidiarietà federalista. Se n’è avuta conferma evidente alla recente Giornata organizzata alla camera dall’Acri per i vent’anni della legge Amato-Carli.
Era presente Giuliano Amato, che siglò nell’estate del ’90 l’atto di nascita degli enti, salvo poi pentirsi di aver creato dei “Frankestein”. Ha mandato un messaggio Carlo Azeglio Ciampi, fin dagli anni ‘80 convinto sponsor delle privatizzazioni bancarie via enucleazione verso l’alto di enti proprietari e poi firmatario nel ’99 di una legge-quadro tuttora operante nel modellare le Fondazioni come joint-venture “paritarie” tra gli enti pubblici locali e la società civile del Paese e dei territori.
Ma alla Camera c’è stato poco tempo per la memorialistica ma fors’anche per le parole d’ordine che hanno scandito due decenni di stria politico-finanziaria italiana. Il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, ha avvertito che le autorità creditizie si attendono che le Fondazioni facciano la loro parte nelle azioni di rafforzamento patrimoniale che saranno prevedibilmente messe in cantiere nei prossimi anni dalle grandi banche italiane per rispondere alla crisi e i nuovi requisiti di vigilanza di “Basilea 3”.
Che a due decenni dalla legge 218 gli assetti delle principali istituzioni bancarie del paese (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mps) siano tuttora affidati alle Fondazioni è un dato di fatto che non scandalizza più nessuno, anzi: è ritenuto dai più decisivo nell’aver parzialmente protetto il sistema italiano e nel favorire ora una guarigione più rapida e meno dolorosa che altrove. Non è affatto casuale, d’altronde, che il nuovo presidente del’Abi, Giuseppe Mussari, sia un presidente di Fondazione “sceso” a guidare la banca a Siena: dove cioè un grande gruppo ha ancora un ente come azionista di controllo.
Per paradosso, sono i leader delle Fondazioni (a cominciare dal presidente della Cariplo e dell’Acri, Giuseppe Guzzetti) a essere contrariati dalla brusca frenata nella fase finale del divorzio tra Fondazioni e banche: anche perché le partecipazioni creditizie che continueranno a riempire ancora per un po’ i portafogli delle Fondazioni non hanno alti potenziali di aumento di valore e della redditività.
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Si ridurranno così i mezzi utilizzabili per le erogazioni e gli investimenti “di missione”, obbligando le comunità territoriali (sistemi educativi, sanitari, categorie deboli, distretti culturali, iniziative di social housing, ecc.) a sopportare degli oneri impropri nello sviluppo di un welfare sussidiario che proprio nell’exit strategy dovrebbe velocemente subentrare all’obsoleto welfare statalistico.
Fors’anche in questo scenario, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha inserito nella manovra un codicillo che guarda a una più stretta vigilanza del Tesoro sulle fondazioni che – par di capire anche in pool – mantengono posizioni di controllo in banca. Nove anni fa Tremonti fu protagonista di un clamoroso tentativo di contro-riforma statalista, naufragato dopo due anni di duro confronto politico-giudiziario con le Fondazioni: le sentenze della Corte costituzionale del 2003 scrissero d’altronde un vero e proprio “statuto delle Fondazioni”, facendone un paradigma della sussidiarietà come “enti organizzatori delle libertà sociali”.
Un approdo che convinse lo stesso Tremonti, il quale è divenuto con Guzzetti il principale stratega di una partnership Stato-Fondazioni che rispettando l’autonomia privata degli enti, ne recuperasse la funzioni di leva sia sul versante del welfare che in quella della finanza di sviluppo. La nuova Cassa depositi e prestiti e le sue iniziative satelliti (fondi infrastrutturali e di edilizia sociale) ne sono stati l’esempio principale.
Forse per il clima di reale cooperazione esistente tra Tesoro, Fondazioni e grandi banche, non c’è stata reazione da parte dell’Acri, che da sempre riconosce al ministero un ruolo di supervisione sulla legittimità dell’operato degli enti. La vigilanza “di merito”, nei fatti, continua a essere esercitata con i contatti diretti del Tesoro con i vertici delle grandi Fondazioni e attraverso l’intermediazione dell’Acri.
La vera risposta di Guzzetti alla Giornata è stata – e sarà nei prossimi mesi – la forte attesa riposta in un disegno di legge del ministro della Giustizia Angelino Alfano per riformare la parte del primo libro del codice civile che disciplina, appunto, fondazioni e associazioni. Le figure giuridiche classiche della “società civile” sono ormai obsolete nel codice del ‘42 e proprio l’avvento e l’affermazione delle grandi fondazioni bancarie continua a essere giudicato un piedistallo utile per fare ordine – ormai ben dentro il XXI secolo – nello sviluppo impetuoso di enti ormai diversissimi tra loro, anche se genericamente accomunati da finalità di utilità sociale.
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È stato qui il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a richiamare un’alta supervisione del Parlamento sulle Fondazioni, soggetti forti e importanti immessi democraticamente nelle comunità. E, implicitamente, ha ridato eco al tema dell’indipendenza politica degli enti: oggi – a differenza del tentativo di blitz di Tremonti nel 2001 – sollevato più da quanto avviene dentro le Fondazioni o nei loro immediati dintorni che presso i palazzi romani.
Le forti polemiche tra Cariplo, Compagnia Sanpaolo e Comune di Torino in occasione delle nomine in Intesa e il pressing dei nuovi leader delle Lega al Nord (dal sindaco di Verona, Tosi, ai neo-presidenti delle Regioni Veneto e Piemonte, Zaia e Cota) hanno riacutizzato tensioni partitiche che sembravano essere state gradualmente ridimensionate.
D’altra parte era impensabile che la volata finale verso il federalismo nel mezzo dell’austerity globale non mettesse sotto pressione diretta questa rete di casseforti strategiche nell’Azienda-Paese. Così le Fondazioni restano un cantiere aperto, indicatori sempre più sensibili della capacità del sistema-Italia di ammodernare la sua governance materiale.