Oggi si insedia e inizia i suoi lavori la Commissione istituita dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini con il compito di «fare manutenzione» alla legge n. 92 del 2012, meglio nota come riforma Fornero del mercato del lavoro. Avendo lavorato a lungo sul testo nella passata legislatura e contribuito a migliorarlo, non mi sottraggo, «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio», al diritto e al dovere di dire la mia opinione nell’intento di fornire delle proposte utili. Sul piano generale, vanno respinte le suggestioni abrogative della legge sia nel suo insieme, sia nella parte che affronta le tematiche dell’accesso al lavoro. Si tratta di un’ipotesi praticamente propagandistica, ma è sbagliato persino parlarne da parte di forze della maggioranza per almeno due motivi: il primo è relativo all’interesse che il provvedimento ha suscitato nei nostri partner europei e internazionali; il secondo riguarda l’esigenza di chiudere per un congruo lasso di tempo il “cantiere” del mercato del lavoro.
La principale critica che, infatti, può essere rivolta alla legge Fornero è quella di aver sconvolto un orizzonte in via di consolidamento del diritto del lavoro, in tutte le sue principali materie, mettendo le aziende – nel mezzo di crisi una profonda – di fronte a cambiamenti delle regole delle assunzioni, del licenziamento, degli ammortizzatori sociali e degli strumenti di governance del mercato del lavoro. C’è bisogno di una tregua, sostenuta da un attento monitoraggio e orientata più a modifiche operative piuttosto che a revisioni profonde. Sul piano metodologico, dunque, la Commissione ministeriale farebbe bene a sentire non solo le Parti sociali, ma anche gli operatori del diritto (i consulenti del lavoro, i giuslavoristi e gli avvocati) allo scopo di compiere un censimento accurato degli inconvenienti pratici riscontrati nell’applicazione della legge in conseguenza di normative non sempre chiare e di aspetti confusi o irragionevoli, che non è stato possibile correggere del tutto.
A quest’ultimo proposito, ad esempio, dovrebbero essere riconsiderati – entriamo così nelle proposte di merito – i criteri in base ai quali opera la presunzione di legittimità (o di illegittimità) dei contratti di consulenza (o collaborazione) con titolari di partita Iva. L’aver indicato dei parametri (18mila euro all’anno per un biennio) e dei limiti di durata (8 mesi) non è solo difficilmente applicabile, ma finisce per creare problemi alle Partite Iva corrette, per motivi che sono evidenti: nessuno può sapere all’inizio dell’anno quale sarà il suo reddito; inoltre, non si capisce perché, trascorsi 8 mesi, il rapporto debba essere a rischio di sanzione, fino a prova contraria.
A mio avviso, sono sufficienti le definizioni e le declaratorie giuridiche che qualificano, nella legge, le posizioni ritenute legittime. Sempre proseguendo nel merito, è bene tener conto di come le aziende si stanno adattando agli indirizzi della nuova legge, rivolgendosi a un maggior utilizzo del contratto a termine (a cui si applicano, per la sua durata, le medesime regole di legge e contrattuali di quello a tempo indeterminato) per approfittare dell’acausalità entro i primi 12 mesi e della somministrazione (a cui è stato riconosciuta anche la possibilità di ricorrere all’apprendistato). Rafforzare tali tendenze è senz’altro utile per le esigenze di flessibilità delle imprese e per assicurare maggiori diritti ai lavoratori.
In sostanza, per quanto riguarda i rapporti a termine non basta (forse non serve neppure) riavvicinare le pause tra un contratto e l’altro (la legge già ora affida questa facoltà alla contrattazione collettiva che meglio può adattarsi alle situazioni concrete). Se si vuole valorizzare questa tipologia contrattuale (peraltro in conformità con la Direttiva europea) occorre lavorare sulla acausalità, abolendone ogni possibile riferimento per un periodo più lungo di 12 mesi (meglio se su tutti i 36 mesi in cui è consentito ricorrere a tale tipologia).
Quanto alla somministrazione, ci si sta rendendo conto che si tratta di un tipo di “flessibilità buona”: ai lavoratori alle dipendenze delle società che operano nel settore si applicano contratti nazionali e integrativi, è loro garantita un’attività di formazione (per la quale andrebbe ripristinata la precedente aliquota “tagliata” dalla legge n. 92). Sarebbe il caso, allora, di abolire il “causalone” in questa fattispecie, soprattutto se a tempo indeterminato, e di abrogare il vincolo dei 36 mesi.
Per evitare abusi, si potrebbe rinviare alla contrattazione collettiva nazionale l’indicazione di un limite numerico, rapportato all’organico complessivo, per l’uso dei contratti a termine e di quelli in somministrazione, salvo consentire possibili deroghe concordate a livello decentrato, a fronte di particolari esigenze.
In conclusione, poiché la flessibilità in entrata non può essere ricondotta soltanto a rapporti di lavoro dipendente, trova ulteriore giustificazione una maggiore apertura nei confronti dei rapporti di consulenza e di collaborazione (tramite partita Iva), come indicato in precedenza.
Da ultimo, è da evitare lo spostamento in avanti dell’andata a regime del sistema Aspi, come propone un settore del Pd che già aveva avanzato questa richiesta nella passata legislatura. Resta da considerare (e possibilmente correggere) una disciplina caotica del licenziamento individuale, come quella contenuta nella legge Fornero. Ma la Genesi racconta che il settimo giorno anche l’Onnipotente volle riposarsi.