Il Jobs Act è sulla bocca di tutti. Eppure, il suo vero contenuto lo conoscono in pochi. E poco sanno anche coloro che hanno letto il testo, che affida tante deleghe in bianco al Governo, al quale soltanto, una volta approvato il provvedimento, sarà affidato il compito di scrivere le norme “vere”. In realtà, alcuni dei “princìpi e criteri direttivi” licenziati dal Senato sono dotati di un certo grado di specificità; questo non significa, però, che sia facile comprendere quali saranno gli effetti della loro attuazione.
Prendiamo, ad esempio, il comma 7, lett. f) che prevede l’introduzione della retribuzione minima garantita, in favore di dipendenti e collaboratori. Testualmente si prevede l’«introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
Il lettore “di destra” potrebbe chiedere preoccupato: «Ma come, in un momento nel quale si paventa più flessibilità, anche retributiva, mettete pure questo ulteriore vincolo?». Quello “di sinistra” potrebbe invece osservare, con un moto di sollievo: «Ma allora è vero che nel Jobs Act c’è qualcosa a favore dei lavoratori!». A entrambi quei lettori, però, consiglierei cautela, perché gli effetti di quel “vincolo” – già operante in altri paesi, ma in contesti giuridici ed economici ben diversi da quello italiano – non mi sembrano scontati. E spiego subito perché.
Innanzitutto, chiariamo che, per i lavoratori dipendenti, il salario minimo garantito, di fatto, esiste già, ed è fissato dai contratti collettivi nazionali. Da oltre 60 anni, infatti, la giurisprudenza ritiene che il principio inderogabile della “retribuzione sufficiente”, imposto dall’art. 36 della Costituzione, si concretizza applicando – pur con aggiustamenti (e cioè senza applicazione di alcuni voci accessorie, e talvolta con un range di tolleranza di qualche punto percentuale) – parametri retributivi desumibili da quei contratti.
Certo, si tratta di un metodo che, quando si tratta di definire concretamente gli importi dovuti, presenta margini di elasticità e, se vogliamo, di opinabilità. Ma, nella sostanza, è un sistema che funziona, e interessa tutti i rapporti di lavoro: e dunque sia quelli instaurati in settori produttivi provvisti di contratti collettivi, ma ai quali, a rigore, detti contratti non si applicherebbero, perché il datore di lavoro non è iscritto all’associazione stipulante; sia ai rapporti instaurati nei settori produttivi privi di contrattazione, per i quali la giurisprudenza prende a riferimento il contratto collettivo stipulato in un settore “vicino”.
L’attuazione del Jobs Act opererebbe proprio in tale secondo caso, che però, nella pratica, costituisce ormai quasi un’ipotesi teorica (i settori privi di contrattazione sono pochissimi). Peraltro, non è escluso che i nuovi minimi possano alla fine risultare inferiori a quelli ricavabili dal contratto collettivo del settore “vicino”. Se questo avvenisse, l’operazione comporterebbe un abbassamento della retribuzione rivendicabile dal lavoratore, che sarebbe compensato solo dalla certezza del relativo importo (la giurisprudenza sull’art. 36 Cost., in effetti, è molto ferma sui principi, ma “elastica” nella loro attuazione; e stabilire quale sia il contratto collettivo “vicino” è come fare poesia del diritto).
L’attuazione della norma non dovrebbe, invece, avere alcun impatto nei settori nei quali vigono contemporaneamente più contratti collettivi, stipulati da diverse organizzazioni sindacali: una compresenza che, come noto, è diversamente accolta da chi pone l’accento sui pregi del pluralismo sindacale, rispetto a chi lamenta la “morbidezza” di alcuni sindacati dei lavoratori, che accettano retribuzioni più basse degli altri.
Il testo del Jobs Act, infatti, limita l’azione del legislatore delegato ai soli «settori non regolati» dai contratti sottoscritti dalle organizzazioni «comparativamente più rappresentative» (a tale definizione, che fa impazzire gli interpreti, sono normalmente ricondotti i sindacati confederali, compresi quelli aderenti a Ugl; o i diversi sindacati che risultino “più rappresentativi” all’interno dello specifico settore). Se, dunque, tali contratti esistono, nulla sembra impedire l’operatività anche di contratti ulteriori. A maggior ragione, si dovrebbe prevedere che non vi è alcun impatto sulla regolazione dei singoli rapporti di lavoro ai quali sono pacificamente applicabili i contratti “sottoscritti dalle organizzazioni (…) comparativamente più rappresentative”.
Tuttavia, non è da escludere che l’effetto più rilevante dell’attuazione della nuova norma possa realizzarsi proprio nelle due ipotesi che, per quanto osservato, sono formalmente sottratte al suo ambito di applicazione. È prevedibile, infatti, che i minimi “fissati” in attuazione del Jobs Act, possano essere presi a riferimento dalla giurisprudenza, come nuovo parametro, che concretizza il citato principio costituzionale della “retribuzione sufficiente”. Se così fosse, tali importi acquisterebbero lo stesso generale ambito di operatività del principio costituzionale: essi opererebbero, cioè, per tutta l’area del lavoro subordinato.
Quindi, anche se risultassero (come è probabile che sia) inferiori, rispetto alla retribuzione prevista dal contratto nazionale leader (e cioè quello firmato dai sindacati comparativamente più rappresentativi), questi nuovi importi finirebbero per imporre un vincolo, innanzitutto per gli eventuali contratti collettivi nazionali alternativi, stipulati “al ribasso” (la questione si potrebbe concretamente porre, ad esempio, per il settore delle cooperative). Ma significativi effetti potrebbero realizzarsi anche nell’ambito di operatività del contratto nazionale leder, qualora si volessero stipulare contratti collettivi di prossimità, provinciali o aziendali, al fine di abbassare la retribuzione prevista a livello nazionale
Simili contratti – la cui legittimità va in linea di principio affermata, sia in base agli orientamenti della Cassazione, sia sulla scorta dell’art. 8, l. n. 148/2011 – risulterebbero infatti anch’essi sottoposti al rispetto dei nuovi minimali, qualora questi ultimi fossero presi dalla giurisprudenza a riferimento per la “traduzione concreta” del principio costituzionale di retribuzione sufficiente. In tal modo, l’attuazione del Jobs Act finirebbe per imporre un preciso vincolo alla contrattazione decentrata in tutti i settori.
Tuttavia, essa potrebbe essere anche costituire un veicolo per il suo sviluppo: se, infatti, per dare concretezza al vincolo costituzionale la giurisprudenza potesse alla fine preferire, piuttosto che il parametro ricavato dal contratto nazionale, utilizzato sino a oggi, quello nuovo, “offerto” dalle discipline attuative del Jobs Act, la contrattazione decentrata potrebbe svilupparsi su parametri più certi (anche se, probabilmente, più rigidi) di quelli attuali. Se accadesse questo, il nuovo livello minimo della “sufficienza” della retribuzione sarebbe, in effetti, facile da calcolare. Anche se, probabilmente, sarebbe anche più basso di quello considerato sino a oggi.
Il “saldo finale” dei possibili effetti che l’attuazione della disciplina potrà comportare nell’area del lavoro subordinato, quindi, è tutt’altro che facile da prevedere. Non va, poi, dimenticato che il disegno di legge considera anche le collaborazioni continuative e coordinate, nel quale ovviamente vanno ricomprese anche quelle a progetto. In tale ambito, sembra più facile prevedere un effetto favorevole all’aumento delle retribuzioni dei collaboratori, i quali, a tutt’oggi, non possono invocare né una contrattazione collettiva nazionale vincolante in materia retributiva, né l’art. 36 della Costituzione.
D’altronde, i tentativi del legislatore di fornire a tali lavoratori una tutela retributiva minima inderogabile sono stati, sino a oggi, tutt’altro che brillanti. Provate ad applicare l’art. 63, d.lgs. n. 276/2003, riscritto dalla legge “Fornero” n. 92/2012, che così testualmente recita: «Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e, in relazione a ciò nonché alla particolare natura della prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati».
La fissazione di importi finalmente certi, dunque, potrà costituire un indubbio sostegno per i collaboratori che lamentino retribuzioni insufficienti. Anche se il riferimento posto dal testo del Jobs Act, irrigidito sul parametro orario, lascia un po’ perplessi: non dovrebbe essere un mistero, infatti, che tra le “libertà” del collaboratore che ha promesso al committente un “risultato” possa essere (e, anzi, è auspicabile che sia) inclusa l’assenza di vincoli e controlli sugli orari di lavoro.
Ovviamente, queste mie prime riflessioni altro non sono che mere ipotesi, che l’iter di approvazione e attuazione della norma prima, e la sua eventuale applicazione poi, potranno senz’altro smentire. L’importante, però, è non dimenticare che spesso le norme rischiano di non mantenere quello che, a prima vista, sembrerebbero promettere.