Con questo intervento siamo giunti alla terza puntata di un’analisi ad ampio raggio sul significato, la finalità e le conseguenze di processi di privatizzazione che ci sentiamo di consigliare senza esitazioni per l’ancora troppo elevato numero di imprese pubbliche nazionali e locali.
Le privatizzazioni rappresentano in primo luogo l’opportunità di ridare un effettivo assetto concorrenziale ai mercati interessati, facendo ritirare la mano pubblica dalla proprietà e concentrandola sulla regolazione, da realizzarsi attraverso Autorità indipendenti. Solo in secondo luogo rappresentano l’occasione per ottenere introiti straordinari per finanze pubbliche problematiche.
Privatizzazioni fatte bene richiedono preventivi processi di liberalizzazione e di riforma della regolazione, dei quali rappresentano un aspetto complementare ma necessario. Le privatizzazioni fatte senza queste riforme sono cattive privatizzazioni poiché trasformano monopoli pubblici in monopoli privati: il gestore privato ridarà comunque efficienza gestionale a queste imprese, ma solo al fine di trattenerne tutti i vantaggi, senza condividerli con i consumatori come invece si verifica in mercati con adeguata concorrenza e in mercati vigilati da regolatori attenti e neutrali.
Riforme dei mercati senza privatizzazioni rischiano invece di essere riforme monche dato che lo “Stato proprietario” avrà sempre un occhio di riguardo per le sue partecipate. Il rischio in questo caso è che le riforme vengano “adattate” alle esigenze delle imprese pubbliche, quando non scritte su loro dettatura, al fine di proteggere in diverso modo l’ex monopolista dai rischi che corre in mercati ora aperti a processi competitivi. Le liberalizzazioni servono per sviluppare i mercati e per tutelare gli interessi dei consumatori; senza processi di privatizzazione degli incumbent pubblici hanno invece un’elevata probabilità di trasformarsi in occasioni sprecate.
Casi virtuosi di poste e ferrovie privatizzate
Mentre nella prima puntata ci siamo occupati della riapertura del dibattito sulle privatizzazioni in occasione dell’ultima manovra di finanza pubblica, cercando di mostrare in particolare “perché i critici delle privatizzazioni hanno torto”, e nella seconda abbiamo affrontato i principali casi di imprese pubbliche ancora di proprietà dello Stato, oggetto dell’intervento odierno è quello di smentire una credenza diffusa ma falsa, quella secondo la quale “almeno le poste e le ferrovie non sono privatizzabili” dato che “nessuno le ha mai privatizzate” o “chi ci ha provato ha combinato solo dei disastri”.
Per realizzare questo obiettivo è opportuno ricordare quello che sosteneva il filosofo Karl Popper: per smentire che tutti i cigni siano bianchi è sufficiente trovare un cigno nero (mentre un numero anche elevatissimo di cigni candidi non permette di escludere che qualche cigno possa essere nero). In sostanza, bisogna trovare esempi ben riusciti di privatizzazioni di aziende postali e ferroviarie. Si tratta in realtà di pochissimi casi nella gran massa di imprese ancora a controllo pubblico in Europa, tuttavia esistono e per le nostre esigenze sono più che sufficienti: per le poste bisogna andare in Olanda; per le ferrovie in Gran Bretagna, Paese in cui esse furono inventate nell’Ottocento.
Il caso delle poste olandesi
A un primo esame il panorama europeo delle aziende postali può sembrare non molto confortante per i sostenitori delle privatizzazioni e del libero mercato: 21 paesi sui 27 dell’Unione europea hanno imprese postali a totale partecipazione pubblica; in altri tre, Austria, Belgio e Danimarca, vi sono stati parziali processi di privatizzazione, ma il controllo rimane saldamente in mano pubblica dato che gli stati detengono partecipazioni superiori al 50%.
Rimangono solo tre casi di poste a controllo non statale o comunque contendibili: le piccole poste maltesi, controllate da Lombard Bank Malta col 60%; le poste tedesche a controllo pubblico ma contendibili dato che le azioni in mano allo Stato si fermano al 30% circa; le poste olandesi completamente privatizzate, una public company senza più alcuna partecipazione dello Stato. Esse rappresentano il caso di maggiore interesse dato che hanno compiuto tutto il percorso possibile, da un assetto originario di amministrazione pubblica, il cui nome ufficiale era “Poste reali olandesi”, alla totale uscita dello Stato dal capitale azionario.
Con la rilevante differenza della privatizzazione, totale in un caso e solo parziale nell’altro, le poste olandesi e quelle tedesche hanno tuttavia compiuto un percorso verso il mercato per molti aspetti simile: i processi di cessione di quote azionarie che le hanno riguardate sono stati infatti accompagnati da un forte orientamento gestionale allo sviluppo delle attività che le ha portate a crescere notevolmente tramite acquisizioni nel segmento contiguo dell’express, già in partenza liberalizzato e soggetto a una forte competizione internazionale. Esse hanno pertanto abbandonato già da molti anni la veste tipica, tuttora dominante in Europa, di monopolisti nazionali esclusivamente rivolti al mercato domestico e prevalentemente orientati al segmento mail.
Entrambe hanno acquistato negli anni ‘90 fa un corriere espresso internazionale, TNT australiano per le poste olandesi (dal quale hanno poi preso il nome) e DHL per le poste tedesche. Grazie a tali acquisizioni hanno potuto avviare un rilevante processo di internazionalizzazione che le ha portate non solo al di fuori dei confini nazionali ma anche di quelli europei: nel 2008, prima che si manifestassero gli effetti della recessione, TNT realizzava il 33% dei ricavi in Olanda, il 51% in altri paesi europei e il 16% in altri continenti; DP-DHL realizzava invece il 31% dei ricavi in Germania, il 35% in altri paesi europei e il 34% in altri continenti.
Questi dati evidenziano come le due imprese siano ormai operatori a pieno titoli nei mercati globalizzati, avendo da tempo reciso il cordone ombelicale che le legava ai mercati nazionali grazie al loro assetto monopolistico. Nell’ultimo anno il gruppo olandese TNT ha cambiato rotta rispetto alle scelte precedenti, decidendo di separare il ramo express dal ramo mail e costituendo due realtà aziendali separate. L’azienda mail (la nuova denominazione è PostNL) è tuttavia la più profittevole delle due, a dimostrazione di come si possa continuare a guadagnare, senza doversi espandere in aree eterogenee quali quelle bancarie-assicurative, anche in un segmento ritenuto ormai maturo e dopo che il mercato è stato liberalizzato.
Non bisogna dimenticare che PostNL recapita in un Paese che è un quarto dell’Italia come numero di abitanti quasi lo stesso ammontare di oggetti postali, a tariffe inferiori, realizzando margini positivi e impiegando un numero di lavoratori paragonabili a quelli italiani del medesimo segmento. Poste Italiane chiude invece tradizionalmente in rosso l’area dei recapiti nonostante i cospicui trasferimenti pubblici per il cosiddetto servizio universale. Dovremmo allora chiederci: potendo scegliere tra le due realtà, quale preferirebbero i contribuenti italiani? E i consumatori italiani? Perché allora i nostri ministri dell’Economia continuano a difendere modelli che non sono in grado di superare semplici test comparativi?
Le ferrovie britanniche
Se nel caso delle poste oltre a un’azienda europea totalmente privatizzata ne troviamo diverse che sono state oggetto di privatizzazioni almeno parziali, nel caso delle ferrovie disponiamo di un solo caso di privatizzazione compiuta: quello britannico. Pur essendo l’unico, esso presenta tuttavia il vantaggio di essere stato realizzato più di quindici anni fa e permette pertanto di osservarne tutte le conseguenze. L’assetto attuale delle ferrovie britanniche è infatti frutto dell’ampio processo, attuato tra il 1993 e il 1997, di separazione verticale e orizzontale dell’operatore nazionale British Rail e di privatizzazione delle numerose aziende che da esso hanno tratto origine.
La riforma fu attuata in primo luogo attraverso la separazione della proprietà e gestione dell’infrastruttura rispetto all’esercizio del trasporto passeggeri e merci. La prima fu affidata all’azienda Railtrack, inizialmente a proprietà pubblica ma in seguito privatizzata, il secondo a una molteplicità di operatori privati per l’esercizio dei servizi passeggeri sulle diverse linee e a un certo numero di imprese merci. La struttura del settore che è emersa da questo processo rappresenta un caso unico in Europa e quello per il quale più avanzato risulta il ricorso a procedure di gara per l’assegnazione dei servizi, la cosiddetta concorrenza per il mercato, più numerosa la presenza di operatori nell’industria e più estesa e articolata la funzione di regolazione del mercato esercitata da organismi pubblici.
Le tipologie di attori presenti nell’industria del trasporto ferroviario britannico a seguito della riforma della metà degli anni ‘90 risultavano i seguenti:
1 – Un gestore e proprietario della rete al quale era affidato il compito del mantenimento in esercizio e miglioramento della medesima, da finanziarsi in via esclusiva attraverso le tariffe versate dalla compagnie ferroviarie utilizzatrici. Questa è la parte che non ha funzionato della riforma britannica. Infatti Railtrack Plc, compagnia pubblica istituita nel 1994 per lo svolgimento di questo compito e privatizzata nel 1996, andò rapidamente incontro a difficoltà di tipo finanziario e tecnico e nel 2001 fu posta in amministrazione controllata e obbligata a cedere la rete a una nuova compagnia pubblica, Rail Network. In sostanza si dimostrò insostenibile l’idea di coprire i costi dell’infrastruttura solo con le tariffe e negli anni 2000 i governi britannici hanno dovuto ritornare a finanziare in maniera diretta i costi di ammodernamento e miglioramento della rete.
2 – Una molteplicità di compagnie per il trasporto dei passeggeri, Train Operating Companies (TOCs) a proprietà privata e soggette ad assegnazione dell’esercizio di linee in franchising per un numero predeterminato di anni. Nell’ambito dell’attuazione della riforma furono assegnate nel biennio 1996-97 complessivamente 25 gruppi di linee per una durata nella maggior parte dei casi compresa tra sette e otto anni e solo in un numero limitato di casi superiore a dieci.
3 – Diversi operatori merci, anch’essi a proprietà privata.
4 – Una pluralità di aziende, anch’esse privatizzate, per il noleggio del materiale rotabile, le cosiddette ROSCOs (Rolling stock leasing companies) e altre per le manutenzioni e la fornitura di servizi alla rete.
5 – Un regolatore indipendente del mercato, l’ORR, Office of Rail Regulation, agenzia pubblica non ministeriale responsabile dell’assegnazione delle licenze a tutte le compagnie, della definizione delle regole di accesso alla rete e relative tariffe, del monitoraggio e approvazione di tutti i contratti di accesso tra compagnie e gestore della rete.
6 – Infine un ufficio non ministeriale, l’Office of Passengers Rail Franchising (OPRAF), responsabile dell’assegnazione tramite gara dei servizi in franchising e delle connesse sovvenzioni pubbliche, nonché del monitoraggio dei relativi contratti.
La dimostrazione più evidente del successo della riforma britannica è la crescita della domanda, quasi raddoppiata dalla metà degli anni ‘90 a oggi. Quando nei primi anni ‘90 la riforma ebbe inizio, il trasporto passeggeri era infatti una fase di declino che, salvo una breve inversione di tendenza nella seconda metà del decennio precedente, perdurava dalla fine degli anni ‘50. Non solo la quota modale delle ferrovie sul trasporto complessivo dei passeggeri risultava in riduzione, ma lo era la stessa domanda in valore assoluto: si era infatti passati da 1,1 miliardi di passeggeri nel 1957 a un minimo di 630 milioni nel 1982 per poi risalire in misura tuttavia limitata e transitoria. Dopo il nuovo minimo di 735 nell’anno finanziario 1994-95, la domanda è invece risultata continuamente in crescita sino ad avvicinarsi a 1,3 miliardi nell’ultimo biennio, con un aumento complessivo di oltre il 70% rispetto alla metà del decennio ‘90.
L’incremento della domanda risulta ancora più elevato se si considerano non i passeggeri totali bensì i passeggeri km, tenendo quindi in considerazione anche la lunghezza del loro percorso. Come si evidenzia dal grafico sottostante, il bilancio complessivo della riforma è un incremento dai 28,8 miliardi di passeggeri km del 1994 ai 53,3 miliardi del 2010, corrispondenti a una crescita complessiva dell’85% e media annua del 3,9%.
Si tratta di valori che non trovano corrispondenza negli altri paesi europei: rispetto all’Ue-15 la domanda britannica è aumentata di oltre due volte e mezza mentre l’unico altro Paese che si avvicina alla Gran Bretagna è la Svezia con un +60% di incremento tra il 1995 e il 2008. Nello stesso periodo la domanda in Italia è cresciuta di meno del 10%.
Ci sembra che i due casi evidenziati, quello delle poste olandesi e quello delle ferrovie britanniche, dovrebbero essere presi in attenta considerazione nel caso italiano, bisognoso di urgenti riforme in ambedue i settori.
(3 – continua)