Un regista “marxista” (interpretato con beffarda autoironia da un impagabile Orson Welles) che sta girando un film sulla Passione di Cristo nei prati della periferia romana, senza però riuscire a venirne a capo, viene disturbato dalle quattro risapute domande di un insignificante “uomo medio”, giornalista della carta stampata, l’ultima delle quali riguarda un celebre collega e contemporaneo: «Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?» E, dopo un attimo di apparente, impacciata riflessione, lancia un inizio di risposta, che tale resta: «Egli danza… egli danza!». Questo scambio di battute, tratto dal bellissimo La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini, è una citazione “a doppio taglio” del celebre riminese da parte di un poeta cui non rese certo facile l’esordio al cinema come regista. Inserisce infatti l’autore de La dolce vita, almeno come impatto superficiale, nell’accomodante retorica del buonsenso “borghese” ed insieme dà di lui e della sua opera una definizione “incompiuta”, “non-finita” (se non nel suo stesso essere poesia).
Chi scrive ricorda ancora il pomeriggio del 31 ottobre 1993, quando Rai Uno, interrompendo d’improvviso la propria programmazione, diffuse la notizia della sua scomparsa a Roma, la sua città adottiva, dove era ricoverato in ospedale per i postumi di un grave ictus. E ricorda anche come non riuscisse a capacitarsi del clamore nato intorno all’evento (forse uguagliato in tempi recenti solo dalla scomparsa di un altro grande ambasciatore all’estero della cultura italiana, Luciano Pavarotti), dell’ondata di testimonianze di cordoglio e insieme di stima per quanto lasciato provenienti da tutto il mondo, nell’ancora immaturo tentativo di capire chi e come si fosse meritato una tale riconoscenza da parte di così tanti e in luoghi così diversi. Qualcuno che, col tempo, avrebbe iniziato a conoscere e a ringraziare a sua volta per una lunga serie di personaggi, maschere, sequenze, fotogrammi, battute, parole, musiche e suoni che avrebbe imparato ad apprezzare per il loro evidente “peso” (anche se non “specifico”), una variopinta galleria umana, visiva e sonora poi ritrovata e rivissuta nella feconda scoperta di altri autori, a loro volta “toccati” dall’incontro – personale o mediato dalle sue opere – con il “Maestro” (com’era noto tra gli addetti ai lavori).
Pensiamo al visionario Terry Gilliam di Brazil, mitica pellicola del 1985 che, pur volendo fare i conti con il celebre romanzo 1984 di George Orwell nel “suo” anno, era stata pensata dal regista – già a partire dal titolo di lavorazione1984 e ½– come un chiaro omaggio anche alle visioni felliniane e la cui vena creativa non si è certo esaurita in quell’unico film. Senza dimenticare l’accorato e brillante Paul Thomas Anderson di Magnolia, vera e propria Dolce vita trasportata e aggiornata ai dolenti anni Novanta, ovviamente così come poteva essere espressa da una sensibilità extraeuropea passata attraverso la grande lezione altmaniana. E che dire invece di un’intera filmografia come quella del genialmente “irregolare” Tim Burton, che ci ha regalato già dagli inizi della sua carriera uno spiazzante campionario di personaggi “diversi” e di situazioni “altre”?
Il primo ha avuto modo di ricordare il Federico nazionale lo scorso 13 settembre in occasione dell’incontro con il pubblico del “Milano Film Festival”:
«Quando mi accingevo a girareLe avventure del Barone di Münchausene si presentò l’opportunità di realizzarlo a Roma, la cosa mi stimolò moltissimo. Girare a Cinecittà era per me tanto importante quanto realizzare il film. Fellini era uno dei miei più grandi eroi ed avere la possibilità di lavorare nei suoi teatri di posa, con Dante Ferretti, che aveva creato per lui tanti scenari dei suoi film, lavorare con persone che ammiravo e stimavo è stato semplicemente meraviglioso. C’è un aneddoto molto divertente. Fellini in quel periodo stava realizzando Intervista. Un giorno io ero nel mio ufficio e mi sono accorto di non avere la possibilità di uscire, perchè proprio fuori dalla mia porta stavano girando una scena con Marcello Mastroianni su un albero, vestito come Mandrake. Tutta la troupe del film era lì e io non avevo l’autorizzazione ad andarmene finché non fossero finite le riprese! Era il suo modo di dire: “Questo gioco è il mio gioco e devi giocarlo alle mie regole!” Lo ringrazierò sempre per questo!»
Il secondo ha invece costruito un’opera potente, fiammeggiante che, dopo 180 minuti di cinema e una pioggia di rane dal sapore biblico che sembra voler raggrumare e cancellare i peccati morali e materiali fino ad allora adombrati o mostrati come in una gigantesca confessione, si chiude con lo sguardo e il timido sorriso in macchina, rivolto a noi spettatori, di Claudia (Melora Walters), una tossicomane che forse è riuscita a fare i conti con il proprio passato ed è pronta a lasciarsi andare all’amore gratuito di un brav’uomo (e poco più) che la ama semplicemente per chi è e per come è. Siamo di fronte a quella catarsi finale che, su una spiaggia del litorale romano, non era riuscita a Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) – reduce da un’orgia notturna e dalla vista di un mostro marino, metafora sintetica delle brutture mostrate dall’altrettanto fluviale opera felliniana – anche se richiamato dall’innocente bellezza di Paola (la giovanissima Valeria Ciangottini, il cui sguardo finale è della stessa natura di quello losangeliano che rivedremo sul grande schermo quarant’anni dopo).
Ad ogni modo, al di là dell’eredità raccolta o meno, dei vari “ritorni” di carattere visivo, tematico e/o linguistico, stando ad un vivido quanto sincero ed appassionato profilo giornalistico datato 1972 – quindi appena superata la soglia dei 50 anni: era nato il 20 gennaio 1920 –, questi erano il carattere, il volto, i gesti, i tic con cui il “Maestro” si presentava agli occhi del mondo:
«In armonia con il carattere, anche la sua mole è notevole. Un metro e 88 d’altezza, 90 chili di peso, nell’espressione del viso ricorda un po’ il classico busto di Beethoven, anche se in una versione più cordiale e paciosa. […] Quando comincia a girare, a dirigere gli attori sul set, allora si trasforma in una sorta di esigentissimo direttore d’orchestra e di coreografo fantasioso. Nonostante la mole notevole, riesce ad assumere tutte le posizioni che pretende poi da ogni attore, e le sue dita grassocce disegnano rapidi esempi dei gesti che vuol vedere imitare. La macchina da presa gira e il regista rimane accanto all’operatore a dare istruzioni con voce persuasiva e soave, mentre il suo viso mobilissimo assume le più diverse espressioni. Finita la scena, è come se gli attori si fossero specchiati in lui. Per prestigiosi che possano essere i nomi degli interpreti presenti nel cast, è sempre lui, Fellini, il primo attore, l’uomo capace di interpretare qualunque parte, da quella del protagonista a quella della comparsa. “È un’antologia, anzi un’enciclopedia dei più diversi caratteri umani” dice uno che lo conosce assai da vicino. “Ci puoi trovare il vigliacco e l’eroe, il vecchio e il bambino, la vittima e il carnefice”. […] Il suo buon umore è contagioso. Pieno di vita, divertente, simpatico, brillantissimo conversatore, è capace di farti ridere a crepapelle o di commuoverti fino alle lacrime. “Fosse nato in India, avrebbe fatto senz’altro l’incantatore di serpenti” osserva con arguzia un suo amico».
E lui, cosa diceva di se stesso e del proprio lavoro? Amava definirsi neorealista: «Per me neorealismo è guardare la realtà con occhio onesto, ma ogni sorta di realtà: non soltanto la realtà sociale ma anche la realtà spirituale, la realtà metafisica, tutto ciò che l’uomo ha dentro di sé». E che cosa potremmo mai aggiungere noi, allora, se non semplice gratitudine? «Egli danza… egli danza!», nella nostra memoria di cinefili o semplici appassionati, accompagnato dalle musiche di Nino Rota, come una delle familiari figure di uno dei finali più commoventi della storia del cinema, ormai parte della nostra storia.
(Leonardo Locatelli)