Al centro dell’inquadratura un soldato armato di fucile avanza guardingo, con molta cautela e leggermente chinato, tra nuvole di fumo, rottami, macerie, rotaie e vagoni merci. All’improvviso si arresta, come realizzando qualcosa di inatteso: il cacciatore è colto in trappola. Un violento zoom in avanti si arresta sul suo volto mentre gli occhi si voltano verso il fuori campo alla propria sinistra. Cambio di inquadratura – che lo lascia sempre al centro del campo visivo – e un movimento all’indietro della macchina da presa scopre la “presenza” di un altro soldato, la preda. Una panoramica a destra coordinata con un movimento ad avvolgere il primo ci mostra che il secondo, definitivamente svelato da un carrello in avanti lungo la linea del fucile, l’ha nel mirino. Per il tiratore tedesco Erwin König (Ed Harris) è questione di brevissimi istanti capire che è ormai spacciato: si rimette lentamente in posizione eretta e con calma rassegnata si toglie il cappello offrendo la propria fronte scoperta, solo per venire fulminato al primo colpo dal cecchino russo Vassili Zaitsev (Jude Law).
Questa sequenza, che per stessa ammissione del regista Jean-Jacques Annaud vuole essere – insieme all’intera pellicola – un omaggio a Sergio Leone, conclude il duello de Il nemico alle porte (Enemy at the Gates, 2001), ambientato nella Stalingrado dell’autunno-inverno 1942-43 mentre la città sul Volga è teatro della sanguinosa battaglia tra Wehrmacht e Armata rossa che segnerà le sorti del Secondo conflitto mondiale. Proprio un’opera su di una grande battaglia del fronte russo (i novecento giorni dell’assedio di Leningrado, l’attuale San Pietroburgo) era infatti nei progetti del regista italiano: quando se n’è andato colpito da un infarto all’età di sessant’anni, un sabato sera di vent’anni fa (30 aprile 1989), il lunedì successivo era atteso negli Stati Uniti per firmare il contratto con i produttori che avrebbero finanziato la sua nuova impresa cinematografica mentre il governo dell’allora Unione Sovietica si era già detto disposto alla chiusura delle strade e del flusso turistico nelle zone interessate dalle riprese e al prestito di centocinquanta carri armati del suo esercito.
Il tutto a cinque anni di distanza dal suo ultimo film, C’era una volta in America (uscito in Italia venticinque anni fa, il 17 febbraio 1984), un’opera da lui accarezzata già dalla fine degli anni Sessanta e dal carattere ciclopico sia nelle intenzioni che nella realizzazione: se la lavorazione si protrae lungo tutto un anno – dal giugno 1982 al giugno 1983, sia in Italia che all’estero – per trenta settimane complessive di attività sul set, gli annali tramandano sia lo sbotto del regista rivolto all’organizzatore generale del film, Mario Cotone, all’inizio delle riprese negli studi di Cinecittà con la sequenza della fumeria d’oppio cinese («Aoh, cominciamolo bene, ‘sto film! ‘A Mario, guarda io nun le faccio ‘e passeggiate: io quando faccio un film, faccio un film co’ ‘a “effe” maiuscola: qui se devono rompe ‘er culo tutti!») e anche di come Robert De Niro pare abbia fatto dono a ciascun componente del cast di una medaglietta con la frase: «Complimenti, siete sopravvissuti alla lavorazione di C’era una volta in America». Storie di un cinema che, cronologicamente, è dietro l’angolo ma che pure sembra appartenere a un’altra epoca.
Dunque il 2009 inizia davvero nel segno del Leone e questo per più di un ricorso storico, oltre quelli già citati. Nato ottant’anni fa (3 gennaio 1929) a Roma, a trentacinque anni firma il primo capitolo della sua personalissima “trilogia del dollaro” con Per un pugno di dollari (uscito il 16 settembre 1964), punto di inizio del “western all’italiana” e trampolino di lancio del semi-sconosciuto Clint Eastwood – un attore che oggi, divenuto a sua volta autore, ci sta regalando una serie di classici come un tempo solo John Ford e Howard Hawks ai nostri padri e ai nostri nonni. Durante le feste natalizie di quarant’anni fa (il film esordisce il 21 dicembre 1968) il regista romano è invece nelle sale italiane con la sua prima pellicola western finanziata da una casa statunitense (la Paramount, dal 1966 proprietà della Gulf & Western Corporation), C’era una volta il West. Pur dovendosela vedere con Il medico della mutua di Luigi Zampa (campione di incassi della stagione 1968-69), 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, Serafino di Pietro Germi (trionfatore della “sfida” natalizia), Amanti di Vittorio De Sica, Il libro della giungla (ultimo film portato a termine sotto la supervisione di Walt Disney, morto nel 1966) e Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa di Ettore Scola (altro campione di incassi di quella stagione), l’ultima epopea leoniana della Frontiera porta a casa complessivamente due miliardi e mezzo di lire.
Ma, allora come oggi, non sempre pubblico e critica vanno a braccetto. Giovanni Grazzini, il grande critico cinematografico de “Il Corriere della Sera”, nella recensione del film comparsa sull’edizione del 22 dicembre, scrive: «L’ultima delusione ci viene da Sergio Leone, il quale ci aveva fatto sperare in un film trionfale, a riscatto di un’annata assai grigia […]. Invece no, invece solo scaglie d’un ingegno che almeno in questo genere sembra prossimo a esaurirsi. […] [M]anca la freschezza dell’ispirazione, mancano i punti esclamativi, e la materia fin troppo elaborata si piega su se stessa sotto il peso di echi innumerevoli, se non proprio di citazioni dai classici. […] Ne deriva che del western il film ha la buccia, e una buccia un po’ trita, ma non certo il cuore». Nient’altro che un esempio dell’incomprensione di (gran) parte della critica con cui l’autore deve fare i conti in patria. E questo mentre all’estero è ormai già tenuto in grande considerazione, se non addirittura oggetto di aperta venerazione, come accade in Francia. Ecco quanto si dichiara sulle pagine de “Le Nouvel Observateur” al momento dell’uscita dello stesso film nell’agosto 1969: «Questo cinema è quello del piacere […]. Molti film sono realizzati da individui che non amano il cinema. Molti film non riflettono che il malessere e la noia di coloro che pretendono di creare. Al contrario, ogni immagine di Leone rivela un formidabile appetito. Egli adora quello che fa, non si sazia, si stupisce come un fanciullo».
Una lettura della propria opera i cui termini principali tornano anche nelle parole dello stesso regista, interrogato sulla natura del suo cinema: «Amo che i miei film siano delle strutture aperte, delle proposte, degli interrogativi. Al tempo stesso, cerco di ritrovare lo sguardo, la lucidità, l’ironia, la tenerezza, il gioco dell’infanzia. Se dovessi racchiudere in una definizione i miei film, li definirei favole per adulti». Racconti per bambini cresciuti, quindi, dove, sempre secondo il regista, se «i suoi personaggi [di John Ford, ndr] quando s’affacciavano alla finestra, guardavano lontano uno splendido futuro; i miei invece hanno solo paura solo di ricevere una palla in mezzo agli occhi».
(Leonardo Locatelli)