Sono trascorsi vent’anni dalla sottoscrizione del Protocollo del 23 luglio 1993, in cui vennero definite le nuove regole della contrattazione collettiva e una politica salariale che aveva il preciso compito di consentire il rientro dall’inflazione per dare modo al Paese di adeguarsi alle prospettiva della moneta unica. Il sindacato dimostrò un alto senso di responsabilità ottenendo in cambio un riconoscimento ambito: diventare il Lord Protettore del sistema politico della Seconda Repubblica. Allora nessuno poteva immaginare che, all’improvviso, sarebbe comparsa la meteora Silvio Berlusconi a sconvolgere tutti i calcoli dei protagonisti della “resistibile” rivoluzione delle toghe (che ricorda molto quella degli ayatollah iraniani) e dei loro burattinai. Ma questa è tutta un’altra storia. La nostra si ferma qui, agli aspetti legati al sindacato e alla contrattazione collettiva.
Di certo, al Protocollo, che ha scandito il percorso della contrattazione da allora in poi pur attraverso modifiche che non ne hanno stravolto la struttura, non si sarebbe mai arrivati senza un altro accordo di cui si preferisce non parlare, anche se è giusto restituirgli il merito: quello del 31 luglio di un anno prima. Giuliano Amato – che presiedeva il primo Governo dopo le elezioni del 1992 – nell’affrontare la vicenda della “scala mobile” (ovvero della rivalutazione automatica delle retribuzioni, ormai sotto tiro da un decennio perché alimentava l’inflazione), che da anni avvelenava i rapporti politici e sindacali, si era accinto all’impresa attraverso parecchi rapporti preliminari. Poteva avvalersi della disponibilità della Cisl e della Uil e di quello della componente socialista della Cgil, che allora contava parecchio.
La linea di condotta venne messa a punto proprio in una bella nottata di fine luglio sulla terrazza di Ottaviano Del Turco (allora il segretario generale aggiunto della Cgil abitava in via Piave, a due passi da piazza Fiume). Gli ostacoli erano tanti. Amato, però, aveva già collaudato la tattica giusta in occasione della manovra varata in quello stesso mese di luglio in una (prima) tranche da 30mila miliardi di lire. Bastava prendere sul tempo interlocutori e avversari. La politica italiana era abituata ai riti, ad approcci cauti, a lunghe pause. Amato aveva impresso all’azione di governo una velocità a cui non erano abituati. Non fare oggi ciò che puoi rinviare a domani: questa era la regola aurea. Il premier, invece, volle cogliere il momento favorevole. Riteneva che fosse giunta l’occasione per un “atto forte di concertazione”, dal quale potesse venire un contributo positivo alla credibilità internazionale dell’Italia.
Convocò le parti per il 27 luglio e comunicò loro che era intenzione dell’esecutivo pervenire a un’intesa. Lo richiedeva la situazione economica. Naturalmente, se il Governo si impegnava nel raggiungimento di questo obiettivo era pacifico che, in caso di fallimento, sarebbe stato costretto a tirare ogni possibile conseguenza. Davanti agli occhi degli increduli sindacalisti e del vertice della Confindustria, il presidente del Consiglio faceva balenare l’ipotesi di una crisi dagli sbocchi imprevedibili, lasciando intendere che la responsabilità sarebbe caduta su di loro. I sindacalisti non avevano neppure una posizione comune. Allora, Amato aggiornò la trattativa al 29 luglio. All’incontro i sindacati si presentarono, finalmente, con una piattaforma.
Si sa come accade in tali casi. La fretta non è buona consigliera per superare i dissensi politici. Così le carte rivendicative diventano delle sommatorie di linee diverse e quindi risultano praticamente “fuori mercato”. Quando i sindacati pensano a realizzare prioritariamente l’unità di intenti al proprio interno, anche in presenza di strategie differenti, succede quasi sempre che la linea di condotta decisa duri, come la rosa, lo spazio di un mattino. A quel punto del negoziato, per colpa dell’insostenibilità della loro piattaforma, redatta più per ragioni di convenienza che per risolvere i problemi, essi finiscono in balia delle controparti. Iniziò, dunque, un negoziato non stop che si concluse due giorni dopo con un accordo, tutto sommato, fortemente innovativo, anche se di carattere transitorio.
Del resto, il Governo aveva interesse a produrre effetti immediati sull’inflazione e sul contenimento del costo del lavoro, per uscire dalla situazione di stallo in cui versava il Paese. Le riforme sarebbero venute in seguito. Il protocollo del 31 luglio cancellava definitivamente la scala mobile (o meglio escludeva qualsiasi meccanismo di indicizzazione automatica delle retribuzioni); stabiliva il blocco, fino a tutto il 1993, degli aspetti retributivi della contrattazione aziendale e dettava alcuni principi generali cui avrebbe dovuto attenersi la riforma della struttura della contrattazione e del costo del lavoro nella seconda fase del negoziato, da tenersi a settembre. Tutti firmarono senza sollevare questioni, neppure il leader della Cgil Bruno Trentin.
Nessuno poteva immaginare che, negli incontri riservati di quelle ore, si era consumato un piccolo dramma nella delegazione della Cgil. La segreteria aveva votato a maggioranza se firmare o meno il protocollo. Il giorno dopo Trentin, che pure aveva svolto un ruolo determinante per la firma dell’accordo, rassegnò le dimissioni, invocando di essere venuto meno, con la firma, a un preciso mandato conferitogli dalla sua organizzazione. Poi, se ne andò in ferie, rinviando l’esame delle dimissioni alla ripresa. Tutto il mese di agosto passò a discutere di queste dimissioni. Il Gotha della Cgil polemizzava sotto l’ombrellone con tutto il mondo: tra di loro, con il Governo, con le altre organizzazioni, con la Confindustria. Sembrava tornata la rissa tra comunisti (ora ex) e socialisti del 1984.
Ai primi di settembre si svolse una (psico)drammatica riunione del Consiglio generale, a conclusione della quale Trentin ritirò le dimissioni. Ma la vicenda aveva guastato i rapporti interni, in particolar modo tra Trentin e Del Turco. Il segretario generale accusava implicitamente il suo “aggiunto” di averlo mollato davanti ad Amato e alle altre confederazioni, mentre lui si sforzava di fare valere la linea decisa dalla Cgil (la quale si era inventata un surrogato di scala mobile). Trentin aveva ragione nel metodo, ma torto nella sostanza. Del Turco esattamente l’opposto. In verità, in Cgil, si era determinata una convergenza tra le due maggiori componenti, ma essa era fuori dal contesto delle possibilità del negoziato. Del Turco aveva accettato quel compromesso per sbloccare la situazione, puntando a rimetterlo in discussione durante l’evoluzione della trattativa. Trentin, invece, aveva colto l’occasione per prendere i classici due piccioni con la solita fava: era riuscito a dare la colpa della cancellazione definitiva di qualunque sistema di indicizzazione automatica delle retribuzioni al povero Del Turco e contemporaneamente aveva gettato una luce fosca sul Governo, reo di attentare all’autonomia del sindacato e di estorcere intese punitive per i lavoratori attraverso ricatti politici. Tutto ciò, per altro, evitando di isolare la Cgil e di bloccare un processo politico importante per il Paese.
Per fortuna, all’estero non si diedero molta cura dei contorcimenti intellettuali di un sindacalista, per quanto autorevole fosse (qualcuno ben informato sostenne che la messa in scena di Trentin servisse soltanto a dribblare il veto del Pds nei confronti dell’accordo). Anzi, per gli “gnomi di Zurigo” (l’espressione era usata dal premier laburista Harold Wilson con riferimento ai mercati internazionali) quando il sindacato si lamenta vuol dire che le misure vanno bene. Così, il protocollo del 31 luglio diede respiro al Governo (la Banca d’Italia ridusse il tasso di sconto e la Borsa reagì positivamente). Si chiuse così un capitolo della storia sindacale (e non solo) del Paese. Nessuno fu più in grado di fare risorgere – al pari di Lazzaro – la “scala mobile”. Della sua fine e dell’instaurazione di un nuovo assetto che attribuiva alla contrattazione nazionale la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni (mentre a livello decentrato doveva essere remunerata la produttività), il merito principale se lo presero quanti (Carlo Azeglio Ciampi e Gino Giugni in testa) curarono la “pars construens” (il Protocollo del 1993, appunto).
Una narrazione puntuale e documentata di questa fase è stata scritta, in un suo saggio, da un attento giornalista come Massimo Mascini (Profitti e salari. Venti anni di relazioni industriali: 1980-2000). In verità, è stato assai arduo smantellare un istituto contrattuale che “veniva da lontano”, che realizzava un processo di identificazione per taluni settori del mondo del lavoro e che dava la parvenza di una garanzia nella tutela del salario. Coloro che si credono parte di un sistema tolemaico pensano sempre di stare al centro dell’universo. Tra quanti hanno preso parte al crollo di questo Muro (Bettino Craxi all’inizio e Giuliano Amato alla fine, in mezzo due grandi presidenti della Confindustria, Vittorio Merloni e Luigi Lucchini) spicca la figura di un prestigioso sindacalista: Pierre Carniti. E insieme a lui, oltre a Luciano Lama, un grande e intelligente Ottaviano Del Turco. E un giovane economista: Ezio Tarantelli, che a quella causa sacrificò la vita.
Il Protocollo del 1993 fu, anche, la pietra miliare della concertazione; in sostanza il tentativo di un governo neocorporativo dell’economia. Il cambio di passo è ben descritto nel libro di un giovane giurista, di sicuro avvenire (Michel Martone – Governo dell’economia e azione sindacale. Cedam. Padova 2006). In verità, l’affermarsi di una linea di concertazione – che i sindacati continuano a rivendicare – avrebbe comportato una modifica degli assetti istituzionali del Paese, in maniera molto più profonda (e discutibile) di quanto non sia concretamente accaduto. Sarebbe sufficiente osservare come il sindacato condizioni la vicenda politica del Paese quando è al potere una coalizione di centrosinistra, fino a prefigurare una diversa Costituzione materiale, in cui un potere privato e legibus solutus (in quanto il suo ordinamento non corrisponde a quello che la Carta ha definito) finisce per determinare la vita pubblica, partecipando a decisioni di carattere generale ben oltre quelle riguardanti i soggetti rappresentati.