Quando Charles Gave, economista e imprenditore francese, parla di un qualche argomento, buona parte della comunità finanziaria si siede e prende disciplinatamente appunti. Nato a Tolosa nel 1943, tra mille peculiarità della sua carriera, Gave vanta un rapporto epistolare con il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, incontrato anche di persona più di una volta. Insomma, uno che quando parla è meglio non fare finta di nulla. Bene (o male), Charles Gave ha deciso di parlare sull’Italia e lo ha fatto partendo da un presupposto: quando nel 1999 il nostro Paese decise di adottare l’euro, Gave disse che stavamo per trasformarci da una nazione con alta probabilità di svariate svalutazioni monetarie a una con una certa probabilità di eventuale bancarotta. E oggi, cosa pensa? «Il momento fatale non è troppo lontano per Roma».
La diagnosi è semplice: l’Italia è diventata paurosamente non competitiva, quindi di fatto insolvente. Basti vedere lo stato di salute del nostro sistema bancario, tipico epilogo di quando gli istituti di credito prestano denaro ad aziende totalmente non competitive e disfunzionali a causa delle pressioni di qualche banchiere centrale senza scrupoli: siamo quindi all’ultimo miglio? Ecco cosa dice Gave: «Matteo Renzi si è appena aggiunto alla lunga schiera di primi ministri italiani che hanno fallito nel riformare il loro Paese. Diciamo che questa è soltanto un’altra maniera per dire che nessuno può brandire la bacchetta magica e far recuperare all’Italia la sua competitività nei confronti della Germania. La dura realtà è che nessun leader italiano ha alcuna possibilità di cambiare la sua nazione, una volta che è stata presa la decisione di legare la sua valuta a un peg con la Germania». Ovvero, adottare l’euro.
«Già al tempo dell’introduzione dell’euro nel 1999, facevo notare che il profilo di rischio dell’Italia sarebbe cambiato, tramutando una nazione con alta probabilità di svariate svalutazioni monetaria a una con una certa probabilità di potenziale bancarotta. Mi spiace dirlo, ma quel momento non è più troppo distante». Ora guardate il grafico a fondo pagina, il quale è alla base del ragionamento di Gave. Divide la storia economica recente dell’Italia in due, tra il marzo 1979 e il marzo 1999 da un parte e tra il marzo 1999 fino a oggi dall’altra. L’Italia è entrata nello Sme nel 1979 con un cambio di 443 lire per marco tedesco, ma già nel 1990, a seguito di frequenti svalutazioni, il tasso era scivolato a qualcosa come 750 lire per marco.
Dall’inizio degli anni Novanta, la Bundesbank stava sovrintendendo un nuovo sistema monetario unitario per combattere l’inflazione che aveva portato i tassi di interesse al 7%: nel settembre del 1992, gli stress nel sistema (e la speculazione di Soros) costrinsero Gran Bretagna, Italia e Svezia a uscire dallo Sme (il “serpentone monetario”), di fatto un’altra, enorme svalutazione che portò la lira a 1.250 per marco, garantendo però al contempo un boom del turismo al nostro Paese. E veniamo ora al grafico. Tra il 1979 e il 1998 la produzione industriale italiana superava quella tedesca di oltre il 10%, mentre il nostro mercato azionario superava quello della Germania per l’equivalente del 16% (sintomo che le aziende italiane stavano guadagnando un return più alto sul capitale investito di quelle tedesche). Poi, è arrivato l’euro. E cosa è successo?
Lo spiega Charles Gave: «Dal 2003 è stato chiaro che l’Italia non era competitiva e, di conseguenza, le equities italiane sono andate in underperformance su quelle tedesche per qualcosa come il -65%, portando a un completo ribaltamento del pattern del mezzo secolo precedente, quando erano i vostri titoli azionari ad andare in outperformance su base di return totale». E ora? «La diagnosi è semplice. L’Italia è diventata paurosamente non competitiva e, quindi, è insolvente. Basti vedere lo stato di salute delle vostre banche, tipico epilogo di quando gli istituti prestano soldi ad aziende non competitive su pressioni di qualche banchiere centrale senza scrupoli. A meno di imporre una schiavitù stile Grecia all’Italia, non c’è molta speranza per una risoluzione del problema, ma dubito che l’elettorato italiano sarebbe paziente quanto lo sono stati i suoi vicini dello Ionio».
Per Gave, «le relazioni tra Italia e Germania ora sono radicalmente differenti da quelle nell’era 1945-1999, periodo in cui era possibile tornare a un naturale equilibrio attraverso aggiustamenti dei tassi di cambio. Alla luce della traiettoria corrente, l’unica possibilità è che le economie italiana e tedesca continuino a divergere, motivo per cui non è possibile addivenire a una risoluzione normale». Insomma, non esistono soluzioni che non siano traumatiche arrivati a questo punto della vicenda europea: l’Italia è destinata a scelte radicali, perché si è spinta in un territorio economico e debitorio che non consente reset a costo zero.
Ancora Gave: «Un default sovrano dell’Italia di qualche genere è oggi una quasi certezza. Se infatti una Banca centrale può risolvere un problema di liquidità, non può rimediare a una questione di solvibilità, specialmente una di entità enorme come quella italiana. L’unica azione di rimedio che vedo e che può essere presa è di gettare buon denaro dover aver buttato quello cattivo (proseguire l’azione di monetizzazione del nostro debito con il Qe, ndr), che è esattamente quello che ha fatto Mario Draghi, soprattutto per il ruolo di facilitatore che ha avuto nell’inserire l’Italia nell’eurosistema fin dall’inizio. Ma anche queste azioni possono meramente posporre il giorno del giudizio, ancorché non risolvono assolutamente nulla».
Cosa teme Gave, a questo punto, per il nostro Paese? «L’approccio razionale per un investitore in una condizione del genere è quello di scaricare assets italiani come equities bancarie e bond sovrani prima che siano di nuovo i tassi di interesse del mercato a determinare i prezzi. Temo che quella italiana sia la più “telefonata” e ora inevitabile bancarotta nazionale a cui io abbia assistito nei miei 45 anni di carriera. Non c’è motivo per chi investe di finire sotto un treno, quando ci sono così tanti altri mercati e assets su cui investire».
Interessato pessimismo tipico dei francesi, i quali proprio in questo periodo stanno giocando una partita epocale per il controllo di assets strategici nazionali italiani, con Vivendi salita al 25% di Mediaset e determinata, dopo Telecom, a dar l’assalto finale a Generali con Axa attraverso il controllo di Mediobanca? La cosa non mi stupirebbe affatto, ma resta una realtà che quel grafico chiarifica in maniera devastante: l’euro è stata la più grande sciagura che questa nazione abbia vissuto dal Dopoguerra a livello di produzione industriale e competitività. E, paradossalmente, è proprio la Francia di Charles Gave a dimostrarlo, per l’esattezza un suo settore strategico come l’industria automobilistica. Stando a dati Eurostat, l’industria (escluse le costruzioni) pesa per il 14,1% del valore aggiunto lordo francese, quando nel 1995 quel dato era al 19,2%. La media della zona euro è ancora al 19,3% ma in Germania è al 25,9%. Di più, il settore industriale pesa per solo l’11,9% dell’occupazione totale in Francia, contro la media Ue del 15,4% e il livello tedesco addirittura del 18,8%.”
Stando a dati dell’Oica, la produzione mondiale di automobili è quasi raddoppiata tra il 1997 e il 2015, passando da 53 milioni di veicoli all’anno a 90 milioni. Nello stesso arco di tempo, la Germania ha aumentato la sua produzione di automobili del 20%, passando da 5 a 6 milioni. E cosa è successo invece alla Francia, un tempo non troppo lontano produttore orgoglioso di veicoli moderni e dal design apprezzato? Ce lo dice chiaro questo grafico, dal quale deduciamo che nello stesso periodo preso in esame prima, la produzione francese è scesa da quasi 4 milioni di veicoli l’anno a meno di 2 milioni. Stranamente, stagnazione e collasso dell’output hanno coinciso con l’adozione dell’euro e l’addio al franco. Populismo? Forse, ma i dati sono inoppugnabili e parlano da soli. Piaccia o meno, l’euro è non un problema ma il problema. Dell’Italia in primis ma non soltanto.