Sembrerà singolare che in una rubrica dedicata alla musica “contemporanea” compaia una guida all’ascolto di una pagina della prima metà dell’XIX secolo (e per di più del “romantico” Chopin!).
Ora, la spiegazione del “fattaccio” è triplice: innanzitutto l’autore sta biecamente approfittando dello spazio concessogli per dedicare questa meravigliosa pagina al piccolo Luca, figlio di Matteo, amico carissimo.
In secondo luogo questo articolo vuole essere un omaggio al grande Polacco nel giorno anniversario della sua morte (17 ottobre 1849). Infine intendiamo gettare uno sguardo in profondità su una pagina che ha molteplici (e affatto superficiali) legami con la musica del XX secolo (e, spero, con quella dell’incipiente XXI).
La storia della Berceuse è singolare fin dalla scelta del titolo: inizialmente infatti l’autore intendeva chiamare Varianti il delicato brano. In effetti la denominazione originaria tocca molto da vicino l’essenza (sia formale che espressiva) della pagina, che di fatto consiste in un ripensamento assolutamente originale della forma della variazione. Già in questo tratto squisitamente tecnico possiamo rintracciare un primo importante elemento di contatto tra Chopin e la musica d’oggi, musica in cui la variazione (di fattori spesso minimi) riveste un ruolo fondamentale.
Passando a un confronto diretto con l’ascolto cogliamo immediatamente [0’12”] l’elemento fondamentale dell’intera composizione: due battute affidate alla sola mano sinistra che costituiscono il tessuto connettivo del brano. A partire da questa linea di basso (apparentemente inoffensiva e convenzionale) che verrà ripetuta incessantemente per tutta la pagina, il compositore distende una ghirlanda di situazioni continuamente cangianti e strettamente collegate.
Subito dopo l’inizio incontriamo infatti una delicata, semplice melodia [0’18”] che costituisce la prima e fondamentale incarnazione di quel principio quasi inafferrabile costituito dalle due misure d’esordio. Poco dopo [0’30”] una seconda voce si aggiunge alla prima, gettando nuova luce sulla melodia iniziale.
La terza “variante” [0’49”] approfondisce la sublime meditazione chopiniana aggiungendo una linea ritmicamente più mossa al tema iniziale. Davanti ai nostri occhi comincia a dipanarsi una stellare riflessione sulla realtà nel suo multiforme accadere e sul suo impalpabile, dolce e indefettibile sostrato di senso.
Alla luce di questi primi accenni possiamo allora iniziare a leggere le successive evoluzioni del testo che passano dalla preziosità perlacea dell’ordito [0’56”] all’iridescenza pulviscolare [1’07”], dal bizzarro e quasi danzante incedere [1’19”] al ruscellante disegno cromatico [1’27”]. Il percorso tracciato da Chopin ha veramente un carattere quasi miracoloso: è come se a ogni passo scoprissimo nuovi aspetti del reale senza che l’incessante movimento del basso (sempre identico a se stesso) ingeneri il benché minimo senso di monotonia.
Da perfetto dominatore della materia musicale l’Autore riesce (con gesto analogo a quel “romanzo in un sospiro” di weberniana memoria) a introdurre una sublime variante armonica [3’10”] che ci riconduce, con gesto tanto semplice quanto eloquente, alla ripresa della melodia iniziale [3’39”], suggello pacificante dell’intero percorso.
Non dimenticando lo scopo incantatorio del brano però (il fine di una Berceuse – di una ninna nanna – è quello di addormentare i neonati) Chopin, con delicata ironia, “blocca” la linea del basso su un solo accordo in modo da creare un effetto di dissociazione armonica tra le due mani, evidente allusione a una situazione quasi onirica.
Il progressivo sfaldamento del materiale musicale porta ad un ritorno della nuda linea della sola mano sinistra che si sostanzia ora di un solo piano armonico. Nel paradossale immobile-cangiante panorama del brano ogni minimo gesto assume una valenza esponenzialmente enfatizzata. Così una semplice cadenza perfetta (gli ultimi due accordi del brano) [4’09”] appare come la parola definitiva sulla composizione e sull’intera realtà.
A questo punto, con stupore colmo di ammirazione, ci accorgiamo che in poco più di quattro minuti la magistrale, umanissima arte del grande polacco ha saputo legare la sua epoca alla nostra attraverso degli strumenti prettamente tecnici (l’uso costante dell’ostinato, lo spregiudicato rapporto con la dissonanza, il modernissimo trattamento del timbro pianistico, in bilico tra impressionismo e una personalissima gruppen-technik) e soprattutto attraverso una riflessione sulle pieghe più intime dell’animo umano e dei suoi più segreti movimenti mostrandoci, in filigrana, come ogni nostro gesto e ogni elemento del reale sia, nel profondo, abbracciato e sostenuto da una forza nel contempo tenera e tenace, fedele e liberante.
E allora davvero tutto ci diviene amico, il sole e la pioggia, le montagne e le stelle, in un infinito canto che attinge alle radici stesse della vita.