A volte, per accettare una realtà scomoda, tocca sbattere la testa più di una volta. Per quanto riguarda il fatto che un’Ue con la Germania in condizione dominante non sia più accettabile, direi che ieri è arrivata la prova maestra. La locomotiva d’Europa ha infatti corso anche nel 2016, spinta da un mercato del lavoro capace di galleggiare e dal miglioramento della spesa pubblica. Il Pil tedesco è infatti salito dell’1,9% dopo l’1,7% messo a segno l’anno precedente e in aumento dall’1,6% del 2014: è questa la stima preliminare dell’Istituto federale di statistica Destatis che dovrà comunque essere ufficializzata dopo l’uscita del dato relativo al quarto trimestre, che per ora si attesta a +0,5%. Ricorderete l’articolo che ho dedicato al dumping tedesco pochi giorni fa: bene, questo dato è la riprova che non sbagliavo.
Per Berlino si tratta del ritmo di crescita più alto dal 2011, quando il Pil era cresciuto del 3,7% e se il dato reso noto ieri è in linea con la stima della Bundesbank, è invece superiore alle attese degli economisti che puntavano a un +1,8% e allo stesso governo Merkel che aveva previsto un incremento solo dell’1,7%. E, come scrivevo ieri, ora la Germania può permettersi una politica più bilanciata, dopo 13 anni di dumping monetario e commerciale sugli altri partner, garantito da un cambio dell’euro fatto su misura del vecchio marco. A fare da traino è stata infatti la spesa della Pubblica amministrazione, avanzata del 4,2%, soprattutto per effetto delle spese per l’accoglienza dei rifugiati e i consumi privati saliti del 2%. Mentre l’export è cresciuto del 2,5% e l’import del 3,4%: la più grande economia europea ha quindi beneficiato dell’aumento dei consumi privati e dell’incremento della spesa pubblica che hanno compensato così il contributo più debole del commercio dovuto a una domanda fiacca da parte dei principali partner e anche nei mercati emergenti.
Berlino è nella condizione ideale: può rilassarsi, per così dire, perché comunque la concorrenza l’ha stroncata lentamente negli anni e ora non deve temere nulla all’interno dell’Ue. Diverso, invece, il discorso verso Usa e Cina. Ma al di là dei risultati macro positivi, è altrove nel report che si trova conferma di quanto avevo già scritto. Al netto dei festeggiamenti, gli economisti hanno avvertito: l’aumento dell’inflazione, se lasciato incontrollato, potrebbe presto iniziare a erodere i redditi e i risparmi delle famiglie, in quanto non è previsto che a breve la Bce possa alzare i tassi di interesse. Il tasso annuo di inflazione in Germania, misurato secondo gli standard armonizzati dell’Unione europea, potrebbe salire all’1,4% quest’anno dallo 0,3% nel 2016, stando alle proiezioni della Bundesbank.
E qui casca l’asino: che sia più o meno un pretesto, poco cambia, Jens Weidmann ha ora nelle mani un’arma potentissima da schierare contro Mario Draghi e la sua intenzione di proseguire con il Qe. Le pressioni all’interno del Consiglio si faranno sempre più forti, calcolando che la Germania può anche contare sull’appoggio pressoché incondizionato dei Paesi del Nord Europa, i cosiddetti “falchi del rigore”: se soltanto il mercato annuserà o comincerà a temere la possibilità di un tapering, non ci sarà bisogno che l’Eurotower lo operi davvero, la sell-off sull’obbligazionario periferico partirà. Non si accettano deviazioni dal percorso e, nonostante certi scostamenti li notino solo gli operatori, a dimostrare quanto l’Italia sia sotto la lette d’ingrandimento a ogni suo passo ci pensa questo grafico, il quale ci mostra il rendimento del Btp mercoledì pomeriggio, quando la Corte costituzionale ha detto “no” al referendum della Cgil sull’articolo 18, di fatto mantenendo in piedi il muro portante del Jobs Act. Se questa è stata la reazione alla decisione della Consulta, quale potrebbe essere quella all’idea di un tapering del programma di acquisto, sia sovrano che corporate?
Siamo in una gabbia: o ne usciamo, in un modo o nell’altro, oppure meglio prepararsi al peggio. In compenso, la crescita economica robusta ha contribuito a riempire le casse del governo tedesco: l’avanzo di bilancio nazionale della Germania si è attestato allo 0,6% del Pil nel 2016 rispetto allo 0,7% del 2015, stando a Destatis. Il ministro delle finanze, Wolfgang Schaeuble, si aspetta che il bilancio nazionale rimanga, quindi, in equilibrio fino al 2020. Inoltre, l’attività economica dovrebbe rimanere robusta nel 2017 e questo potrebbe rafforzare la popolarità di Angela Merkel in vista delle elezioni nazionali in autunno. Guarda caso, invece, sono più fosche le prospettive sull’Italia che, stando alle ultimi previsioni della Commissione europea, dovrebbe essersi espansa lo scorso anno solo dello 0,7% contro lo 0,8% stimato dal governo, il quale – al netto delle revisioni sempre dietro l’angolo – punta a mettere a segno un +1% quest’anno.
In ogni caso, stando all’agenzia di rating Moody’s, l’Italia, insieme a Francia e Germania, continuerà a crescere ben al di sotto del 2% l’anno nei prossimi due anni, mentre per la zona euro è stata stimata in media un’espansione dell’1,3% per il 2017/2018. E attenzione, perché oggi si pronuncia sul nostro rating di credito sovrano l’agenzia canadese Dbrs, la stessa che con il suo investment grade garantisce ancora al Portogallo di usufruire degli acquisti obbligazionari della Bce, essendo Lisbona giudicata junk dalle altre tre sorelle delle valutazioni. Da più parti si minimizza l’impatto di un’eventuale bocciatura, soprattutto a livello di sistema bancario: per gli analisti, l’impatto sarebbe un aumento degli haircut sui titoli di Stato portati in Bce, ma bisogna considerare che le banche italiane utilizzano pochi titoli di Stato come collaterale, usano soprattutto altri tipi di titoli. Per altri, la conseguenza di un downgrade non sarebbe chiaramente positiva, ma comunque limitata.
Il rating A(low) dell’Italia è stato messo sotto osservazione da Dbrs per un possibile taglio in agosto e proprio allora, stando a calcoli della Reuters, l’impatto del declassamento per le banche italiane risultava inferiore ai 10 miliardi in termini di nuovo collaterale da portare in rifinanziamento. Poca roba, ma all’epoca non c’era Mps nazionalizzata e il Fondo Atlante di fatto tramutato in una pistola ad acqua: proprio sicuri che un downgrade oggi avrebbe un impatto poi così limitato, anche soltanto a livello di percezione del rischio Paese? Tanto più che è passata a mio avviso sotto troppo silenzio l’intervista rilasciata sabato scorso a Der Spiegel da Sigmar Gabriel, vicecancelliere tedesco, leader della Spd e superministro dell’economia. Ecco le sue parole sull’Europa: «L’insistenza tedesca per una politica di austerità nell’eurozona ha reso l’Europa più divisa che mai prima d’ora e una spaccatura dell’Unione europea non è più inconcepibile».
Insomma, qualcuno a Berlino parla chiaramente di frattura dell’Ue come la conosciamo. E questo grafico ne è la dimostrazione, visto che sempre più investitori stanno puntando sulla rottura del peg della corona della Repubblica Ceca con l’euro, attivo dal 2013. Si parla, in gergo, già di Czexit e qualcuno azzarda già di marzo o aprile come data del divorzio, dettato essenzialmente dall’aumento dell’inflazione negli ultimi mesi, passata dall’1,5% all’1,9% di dicembre, a livello di aspettative, quindi vicino al 2% di target della Banca centrale. Certo, non sarebbe il Brexit, ma un ulteriore segnale di debolezza dell’Unione. Se poi oggi Dbrs ci taglierà il rating di credito sovrano, vedremo lunedì se si ballerà o meno.