Il vaso di Pandora è stato aperto. Come vi dico da due settimane, l’errore fatale che potrebbe costare il default coercitivo della Grecia è stato quello compiuto dalle banche, ovvero vendere valanghe di bonds greci legati a cds per scaricarli dai bilanci in vista dell’haircut. Così facendo, se vi ricordate, avevo chiaramente detto che si diluiva pericolosamente la proprietà di quella carta, soprattutto verso soggetti puramente speculativi che nulla hanno da guadagnare da un accordo, tanto più che non siedono nemmeno al tavolo con creditori privati e governo greco. E così è stato.
Dopo aver sparso ottimismo degno di miglior causa per un intero giorno, ieri anche il Financial Times ha dovuto guardare in faccia la realtà. Ecco quanto scriveva: «Molti manager di hedge funds – Marathon, Vega Asset, Greylock Capital e Saba Capital – che detengono debito greco non sono stati coinvolti nei colloqui e quindi non accetteranno nessun accordo sul coinvolgimento del settore privato… E ora anche i membri del comitato ammettono che difficilmente l’accordo sarà raggiunto prima della data del crunch, ovvero quel 20 marzo in cui vanno a scadenza per Atene obbligazioni per 14,4 miliardi di euro». Ma voi la sapevate già, cari lettori, non vi serve aspettare il Financial Times.
In compenso, sempre ieri anche il New York Times si è finalmente accorto di quanto sta accadendo e ha pubblicato la notizia in base alla quale alcuni hedge funds stanno valutando se fare causa alla Grecia nel caso fossero costretti dal governo ad accettare delle perdite. Gli stessi fondi starebbero valutando di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani per veder rispettati quelli che ritengono i propri diritti, in un’iniziativa che potrebbe richiedere anni e che non assicura alcun ritorno. Gli esperti ritengono che gli hedge fund potrebbero rivendicare i loro diritti, se la Grecia rivedesse i termini dei propri bond, in modo che gli investitori ricevano meno di quanto posseggono. Questo – riportava il New York Times – potrebbe essere considerato violazione dei diritti di proprietà e in Europa i diritti di proprietà sono diritti umani. Tutto come vi avevo detto.
Ma c’è dell’altro. Purtroppo, anche quanto ho denunciato nel mio articolo di lunedì (ovvero che la prima vittima del declassamento di massa di S&P’s è stato il programma Ltro della Bce e il suo tentativo di stabilizzare l’eurozona), ha trovato in questi pochi giorni sempre più conferme. Ecco a voi il rovescio della medaglia della situazione globale, in cui l’Europa si trova a fungere da pallina per la partita di ping pong finanziario tra Est e Ovest. La domanda di assets finanziari americani è salita in novembre di 59,8 miliardi di dollari in seguito alla crisi del debito in Europa: lo conferma il Tesoro Usa, sottolineando che gli acquisti sono aumentati in novembre dell’1,7% raggiungendo i 4.750 miliardi di dollari. In compenso, Tic Data ha confermato che Cina e Russia stanno continuando a scaricare debito Usa. Le detenzioni di Pechino sono oggi a 1.132 miliardi, il livello più basso da un anno a questa parte, mentre quelle di Mosca sono passate negli ultimi sei mesi da 176 miliardi di dollari agli attuali 80, compensati da acquisti di oro fisico.
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Insomma, guerra: gli Usa beneficiano della crisi europea, ma devono fronteggiare il sempre meno volonteroso appeasement delle due potenze asiatiche verso il loro debito monstre, a giorni destinato a tornare sulle prime pagine per la necessità di aumentare il tetto onde evitare sforamenti. E se i mercati avevano già scontato il downgrade di S&P’s, i prezzi dei corsi azionari delle ultime settimane parlavano da soli e lo spread ha cominciato a comprimersi grazie al filotto di ottime aste a breve termine permesse proprio dalla liquidità a tre anni della Bce, sempre più analisti – ultimo Chris Wood della Clsa – parlano di un ammontare per la prossima asta Ltro, quella in programma il prossimo 29 febbraio, di almeno 1.000 miliardi di euro, più del doppio di quella tenutasi il 21 dicembre, fermatasi a 492. Un brutto colpo per il bilancio patrimoniale della Bce, attualmente fermo a 3.000 miliardi, che spiegherebbe anche il tono pessimistico e ultimativo di Mario Draghi durante la sua audizione a Strasburgo. E mentendo sapendo di mentire, pur facendolo a buon fine, ovvero per evitare di creare panico ulteriore sui mercati, ieri Mario Draghi ha dichiarato che «il nuovo prestito della Bce a tre anni che verrà lanciato a febbraio sarà probabilmente inferiore al primo, ma avrà una domanda alta». In cuor suo, il numero uno della Bce sa che lo scherzetto di Standard&Poor’s gli costerà caro.
E sempre ieri, a rendere noto come l’intervento di S&P’s abbia squassato le prospettive del mercato obbligazionario dell’eurozona, ci ha pensato William Porter di Credit Suisse, parlando dell’ipotesi di un’operazione Ltro potenzialmente da 10.000 miliardi di euro, cifra che sarebbe giustificata dalla necessità assoluta di cash per le banche europee a fronte dell’ormai certo default greco, certificato proprio da S&P’s e Fitch e reso possibile dalle stesse banche attraverso le loro vendite sconsiderate agli hedge funds.
Insomma, nessuno per Porter ha la minima idea di quale tsunami potrà innescare un default ordinato ellenico, non parliamo poi di uno disordinato, quindi si starebbe attrezzando un firewall di dimensione monstre per mettere in sicurezza il sistema. Certo, la cifra fa storcere il naso poiché presupporrebbe un’asta completamente esente da collaterale da porre in garanzia da parte delle banche, ma è chiaro che la prima emissione di liquidità ha eliminato ogni stigma sui mercati e significherebbe, nei fatti, una garanzia di protezione a basso costo da ogni possibile crisi di liquidità per i prossimi tre anni. Dove prendere, però, una messe di denaro simile? Dai detentori di bonds già esistenti, compresi quelli senior: un azzardo a spese del rischio di sistema. Insomma, al netto dei dettagli e delle conferme ufficiali, la Bce sta pensando a un vero e proprio bazooka.
Perché? Semplice, la crisi dei debiti sovrani dell’eurozona è nulla più che un Cdo (vedi glossario), dove l’allocazione del valore è una funzione rispetto alle perdite attese e la correlazione (cioè la distribuzione di queste perdite in una struttura parcellizzata). In parole povere, cosa vuol dire? Che il Portogallo non può salvare la Grecia, la Spagna non può salvare il Portogallo, l’Italia non può salvare la Spagna, la Francia non può salvare l’Italia, ma la Germania PUO’ salvare la Francia. A meno che quest’ultima non si sposti verso l’area di allarme rosso e divenga anch’essa, periferica. Leggete le motivazioni del downgrade di S&P’s e vedrete che questa ipotesi è ampiamente contemplata – e gradita – Oltreoceano.
Insomma, potenzialmente il rischio di sviluppo per l’eurocrisi è quello dell’alternarsi di una serie di crisi sempre più profonde e rallies di sollievo che culmineranno in quello che Credit Suisse definisce “il momento definitivo”. Prima del quale, Europa core e periferica saranno portate a scontrarsi sempre di più, dando vita alla più classica delle escalation fino alla collisione, ovvero alla scelta tra chi vive e chi muore. Queste ondate di crisi, di fatto, rappresentano la transizione di una o più nazioni proprio verso la periferia dell’Ue. Pensateci. Abbiamo cominciato con la crisi greca, ancora pesantemente in atto e pericolosa, un qualcosa di gestibile (346 miliardi di debito iniziali che, grazie ai nein della Merkel, oggi potrebbero costare a tutti noi qualche migliaio di miliardi) che, proprio i contrasti tra Europa core e periferica, ha fatto degenerare e contagiare prima l’Irlanda, quasi silenziosamente e poi il Portogallo, in maniera a mio modo di vedere poco chiara (dedicherò a questo tema uno dei prossimi articoli). Una volta resisi conto di quanto stavano combinando, gli attori europei hanno dato vita a una serie di piani di salvataggio che avrebbero dovuto portare con sé l’assunto implicito che la periferia non si sarebbe espansa ulteriormente.
Non è andata così, visto che dalla scorsa estate Italia e Spagna hanno raggiunto i primi tre disgraziati, dando carattere sistemico alla crisi. Ora, Standard&Poor’s – con un’operazione che negli stessi Usa è stata definita well-flagged, ovvero ben sbandierata – ha fatto in modo che nella percezione dei mercati, Parigi stia scivolando anch’essa verso il limbo del fallimento e sempre più distante dalla Germania, quasi fosse una zattera alla deriva. Insomma, ha dato vita alla fase finale della crisi a freddo, proprio mentre il programma Ltro sembrava aver riportato un minimo di calma sui mercati, riprezzando in parte l’overshooting obbligazionario. Ora, unite la crisi greca, i downgrades e il fatto che le prossime mosse della Francia saranno molte facilmente basate solo sull’opportunità elettorale e il consenso in vista delle presidenziali e capirete da soli che la situazione diviene più incerta ogni giorno di più.
L’effetto del Ltro, quello di dicembre come quello che verrà (che sarà comunque almeno doppio nell’importo), potrà durare per un po’, sostenuto da un mercato negativo, ma il rischio è quello di un’allerta perenne in attesa del “momento definitivo”. Quello greco.