Ormai da tempo le cronache sono occupate soprattutto da tre argomenti: terrorismo, prezzo del petrolio e banche. E se il petrolio è preoccupazione principalmente degli addetti ai lavori, terrorismo e banche lo sono del vasto pubblico, anche se l’accostamento può sembrare azzardato. E lo è, ma purtroppo vi è un elemento comune: la paura, che è connaturata al terrorismo, ma che è indotta anche dalle ripetute crisi delle banche e di fronte alla quale ci si sente impotenti. In entrambi i casi, ciò genera la necessità di difendersi e la richiesta di essere difesi da chi è ritenuto responsabile del bene comune.
Questo atteggiamento, logico per il terrorismo, è invece estremamente preoccupante nel caso delle banche, il cui capitale principale dovrebbe essere la fiducia. Il sistema bancario italiano sembrava essere al riparo dall’avventurismo finanziario anglosassone, considerato l’origine dell’attuale permanente crisi mondiale. Questa convinzione è stata messa in discussione dalle recenti crisi di nostre banche, oltretutto in categorie come le casse di risparmio e le banche popolari, “radicate sul territorio” e contraddistinte da un rapporto più personale che burocratico nelle relazioni con la clientela. Alla constatazione che mele marce possono esistere anche nelle migliori comunità si contrappone l’assoluta incapacità di intervento delle pur potenti associazioni di categoria e l’altrettanto assoluta inerzia, per non dire di peggio, del mondo imprenditoriale e politico, spesso direttamente coinvolto nella gestione di tali banche.
La tipica attività di una banca di credito ordinario dovrebbe essere fondata sulla raccolta di depositi, remunerati a tassi inferiori a quelli ricavati dal loro investimento in finanziamenti a imprese e privati. Attorno a questa attività di intermediazione del credito ruotano una serie di altre attività, dai servizi di tesoreria a quelli finanziari sempre più complessi, che sono diventati nel tempo preponderanti rispetto alla semplice intermediazione. Inoltre, alle banche sono state attribuite sempre nuove funzioni da parte dello Stato, soprattutto in campo fiscale, rendendo praticamente impossibile per la stragrande maggioranza dei cittadini non aver rapporti con il sistema bancario. Il processo di privatizzazione ha poi portato a definire le banche “imprese come le altre”, con una evidente forzatura della realtà.
La decisione dell’Ue sul cosiddetto bail-in, cioè il coinvolgimento di obbligazionisti e correntisti nei fallimenti bancari, ha dato un ulteriore colpo gravissimo alla fiducia e inasprito le reazioni verso il mondo bancario (e politico). Ma ha anche messo in evidenza che le banche non sono imprese come le altre e aperto la discussione, anche nel largo pubblico, sulla necessità di riconsiderarne a fondo il concetto stesso e la funzione economica e sociale. Una questione, peraltro, che sembra lontana dagli interessi dei gestori del sistema, ma che ha riportato alla memoria del pubblico degli aforismi non proprio positivi per le banche.
Uno dei maggiori problemi è l’elevato livello delle sofferenze bancarie derivanti dalla prolungata crisi economica, aggravato però dall’in discriminata richiesta di rientro dai fidi, in molti casi senza una approfondita analisi delle effettive condizioni delle singole imprese. Il che è suonato a conferma del vecchio adagio: “Le banche ti prestano l’ombrello quando c’è il sole e se lo riprendono quando comincia a piovere”. E’ stato confermato anche l’altro detto, “se devi 100mila euro alla banca, il problema è tuo, se devi un miliardo, il problema è della banca”, dato che nei confronti dei grandi debitori le banche hanno di norma deciso di entrare nel loro capitale. Le conseguenze sono state la diminuzione dei fondi disponibili per il credito ad altre aziende e, spesso, pesanti perdite per la banca.
Vale poi la pena di citare una recente notizia di cronaca, in quanto foriera di una nuova tendenza del sistema. Una banca bavarese di credito cooperativo, la Raiffeisenbank Gmund am Tegernsee, ha deciso di applicare ai privati con depositi oltre i 100mila euro tassi negativi sui depositi, come già avviene per le imprese. Vale a dire che occorre pagare perché la banca accetti in deposito i miei soldi, una netta inversione rispetto al passato che, se diffusa, non potrà non avere conseguenze sul largo pubblico dei depositanti. Anche perché le spese di gestione diventano sempre più pesanti e particolarmente rilevanti per i depositi di piccola dimensione.
Se questo è l’atteggiamento sempre più fiscale delle banche, quando queste vanno in crisi il loro salvataggio rimane però a carico dei contribuenti, con l’intervento statale, e dei depositanti, con il bail-in. Un tempo “avere un conto in banca” era segno di ricchezza, continuando su questa strada rischia di diventare segno di avventatezza, facendo rimpiangere il vecchio ma fidato “materasso”.