Tre anni fa il primo stress test effettuato dalla neonata European banking authority – presieduta dall’italiano Andrea Enria – colpì alle spalle un sistema creditizio italiano sottoposto alla terribile pressione dello spread a 575. Allora a mandare in sofferenza i bilanci dei gruppi italiani furono i Btp falcidiati dall’implosione politico-finanziaria del sistema-Italia (Mario Monti, che proprio in quelle settimane raccolse i cocci come Premier tecnico, ha ammesso in seguito che pesarono molto fattori esterni come i giudizi delle agenzie di rating e la speculazione internazionale).
Quello che è accaduto è stato raccontato molte volte: molte banche italiane hanno ricapitalizzato sul mercato (anche se hanno schivato la “moral suasion” sulle aggregazioni interne); molte banche spagnole sono fallite sei mesi dopo a dispetto dei buoni voti riportati, riaccendendo le polemiche sull’applicazione dei principi contabili internazionali. A metà 2012 l’Ue (e in particolare i paesi dell’euro) decise comunque di strutturare una vera vigilanza finanziaria unificata, affidandola alla Bce. Nell’autunno del 2014 è giunto dunque a conclusione uno stress test più autorevole per l’authority che lo ha condotto – la Bce presieduta dall’italiano Mario Draghi – e per l’arsenale di esperti e strumenti di controllo dispiegati su 130 banche nei 19 paesi dell’eurozona: quelli che da lunedì prossimo faranno parte a tutti gli effetti della nuove Unione bancaria. L’esito – almeno per le banche italiane – non è tuttavia risultato molto diverso: basta guardare i passaggi più superficiali ma alla fine anche più mediatici del pagellone rilasciato ieri dall’Eurotower.
Fra le 25 banche bocciate dopo il primo round (l’Asset quality review dei bilanci 2013) il pattuglione più folto era quello italiano (9 gruppi), che resta tale – con 4 banche – anche nella short list finale di 13. La Banca d’Italia si è affannata ieri fino a notte a sottolineare che gli istituti tricolori effettivamente in “capital shortfall” sono soltanto due: Mps e Carige. Ma non ha potuto negare che il Monte è in cima alla classifica delle richieste di ricapitalizzazione: 2,1 miliardi, un quinto dell’intero gap patrimoniale certificato nell’eurozona dopo gli stress test. E se sommiamo gli 814 milioni di “rosso” notificato a Carige, i 2,9 miliardi di voto negativo al sistema bancario italiano arrivano a un terzo della debolezza che l’eurozona ha pubblicamente riconosciuto al proprio settore creditizio.
Grecia e Cipro – i due paesi finiti in quasi-default – hanno tre istituti a testa fra i 25; la Spagna – il cui crollo bancario nel 2012 spinse l’eurozona alla supervisione unica – ha un solo istituto bocciato su 25. Come del resto la Germania periferica cassa-mutui della Baviera, nessuna traccia di Commerzbank nazionalizzata dopo il 2008. I fattori cambiano, il risultato sembra lo stesso: perché? E con quali nuove conseguenze?
Nel 2014 lo spread italiano è normalizzato a poco più di 150: stavolta è il Pil che fa soffrire terribilmente l’Azienda-Italia. Tre anni fa erano i portafogli-titoli a essere severamente “rasati” dai test: oggi sono i portafogli di crediti verso le imprese e di mutui verso le famiglie a essere svalorizzati dalle tante sofferenze (i prestiti non restituiti da aziende e persone colpite dalla crisi). Ora come allora la radiografia contabile della Bce non perdona gli asset più tradizionali del business bancario: i titoli “fisici” di Stato (non quelli virtuali della finanza derivata, meno facilmente valutabili) e i prestiti commerciali al dettaglio.
Recessione economica e ancora una robusta eredità di “recessione politica”: di capacità competitiva ai tavoli in cui la scelta delle regole – formalmente tecnica – si fa negoziato fra sistemi-Paese. È quella che il Premier Renzi – e con lui il ministro dell’Economia Padoan – sta cominciando faticosamente a ricostruire nell’Ue. È quello che Draghi non aveva oggettivamente la possibilità di discutere a favore del suo Paese d’origine: anche perché è stato lui il primo firmatario di Basilea 3 che – altrettanto oggettivamente – ha confermato principi contabili e di vigilanza prudenziale molto market-oriented e quindi sfavorevoli per “commercial banks” ancora di casa in Italia.
Invece questa piccola nota promuove Ignazio Visco: il governatore della Banca d’Italia si è sporcato le mani, ha ridotto da nove a due (quelle largamente annunciate) le bocciature effettive. Ha messo il suo cappello a nascondere due Popolari (Milano e Vicenza) che non solo non meritavano la bocciatura nelle cifre. E – quel che più conta – rischiano di essere la vittima designata di un nuovo “gioco dell’Opa”: quello che la City vorrebbe aprire sulle Popolari italiane. Ma di questo ci sarà di che scrivere fin da domani. Nel frattempo, tuttavia, è difficile non segnalare che le due banche italiane platealmente messe alla gogna dallo stress test non scontano – in fondo – fragilità patrimoniali o gestionali di fronte alla Grande Crisi: entrambe cadono per gravi errori strategici prima del 2008 (il Montepaschi, con l’acquisizione di AntonVeneta) o per una deviazione continua dai sentieri della “sana e prudente gestione” suggerita dalla Banca d’Italia molto prima degli stress test.