Oltre il danno, la beffa. Non basta che in Italia ottenere un part-time volontario sia impresa tra le più difficili, negli ultimi tempi resa più agevole solo dalla crisi economica e dalla conseguente necessità, per le aziende, di tagliare i costi. Non basta che la rinuncia a una parte del proprio stipendio venga spesso considerata, nella cultura organizzativa delle imprese del nostro Paese, un giusto corrispettivo per il presunto “danno” arrecato all’organizzazione. Non basta: secondo i risultati della ricerca realizzata dall’Osservatorio sul Diversity Management della SDA Bocconi, i (pochi) lavoratori italiani che beneficiano delle (poche) forme di flessibilità lavorativa concepite nel nostro Paese (il part-time, principalmente) devono fare i conti con una serie di ulteriori penalizzazioni.
Che vanno da una più bassa valutazione delle prestazioni (i lavoratori part-time che hanno ottenuto i punteggi più alti sono quasi la metà di quelli full-time, il 10,5% contro il 21,5%), alle minori opportunità di passaggi di livello contrattuale (i lavoratori part-time bloccati nel proprio livello inquadramentale sono l’88,3%, mentre solo lo 0,8% ha avuto accesso alle promozioni; tra i full-time, le percentuali scendono da un canto al 72,7%, e dall’altro salgono al 5,7%), agli aumenti salariali, raramente attribuiti ai lavoratori a tempo parziale.
In sintesi, stando alle parole della ricercatrice Renata Trinca Colonel, “scegliere il part-time significa dimezzare la possibilità di ricevere, a fine anno, le più alte valutazioni, ridurre di sette volte la possibilità di fare una carriera davvero brillante, e guadagnare meno denaro con gli incentivi economici e i bonus non automatici”. Una flessibilità che non si esagera a definire punitiva: al momento di discutere i risultati della propria attività, non di rado i part-timers (il più delle volte madri lavoratrici) si sentono ricordare, quasi rimproverare il loro status: come se aver ottenuto la possibilità di ridurre il proprio tempo di presenza in azienda, proporzionalmente al loro stipendio, fosse un privilegio, che giustifichi l’abolizione di qualsiasi altro beneficio, invece che un equo scambio.
Un po’ meno che equo, a dire il vero: secondo Simona Cuomo e Adele Mapelli, coordinatrici del gruppo di ricerca, chi sceglie la flessibilità (che fuori dai nostri confini nazionali è articolata su forme più varie e numerose del semplice part-time), non solo non genera costi aggiuntivi per l’azienda (contrariamente a quanto spacciato da una vulgata anti-flessibilità), ma è solitamente più produttivo, più soddisfatto, più realizzato nella ricerca di quel work-life balance che ormai da qualche tempo figura tra gli indicatori più eloquenti di benessere dei dipendenti, e quindi dell’azienda.
Il problema non riguarda solo le lavoratrici madri, tipicamente le prime a fare ricorso – o almeno a provarci – alla flessibilità spazio-temporale: ma riguarda tutti i lavoratori, e la stessa azienda, se il suo obiettivo è quello di premiare le performances effettive, invece che – come troppo spesso accade – la semplice presenza sul luogo di lavoro. Una strategia poco lungimirante ha finora portato il nostro Paese, come hanno ricordato Cuomo e Mapelli, a essere tra i primi in Europa per numero di ore lavorate, ma ad attestarsi su una posizione ben meno lusinghiera quanto a produttività oraria.
Sarà per questo che, per alcune grandi imprese – tra le quali la Siemens – l’attestazione della presenza, preferibilmente prolungata, non risulta più tra i criteri di misurazione dei risultati, e di conseguente attribuzione dei premi ai dipendenti. Se questi stanno meglio, producono di più: e se producono di più, sta meglio anche l’azienda. Un’equazione tanto semplice da descrivere, quanto – purtroppo – ancora lontana dal realizzarsi.