Le traversie di Alitalia e Telecom Italia mettono in tutta evidenza uno dei maggiori punti di debolezza del sistema Italia: la mancanza di una politica industriale intesa come visione strategica di ciò che si vuole sia lo sviluppo del sistema economico e del ruolo in esso delle imprese, con la conseguente difesa di quelle ritenute strategiche per il sistema stesso. Al concetto di politica come visione e guida strategica del Paese si è sostituito l’intervento dei politici e dei loro partiti, o fazioni, per l’interessata gestione spicciola delle imprese.
Per un certo numero di anni ciò ha significato la statalizzazione di gran parte del sistema economico, con risultati che appaiono ora meno negativi di quanto sembrassero allora, comunque migliori rispetto a ciò che è seguito. Vale a dire una serie di privatizzazioni senza alcuna strategia globale e quasi sempre all’insegna di un do ut des tra politici e imprenditori o finanzieri, il più delle volte senza capitali e comunque la voglia di investire soldi propri. E l’interesse generale del Paese è rimasto sempre sullo sfondo.
Telecom è un buon esempio di questo modo di procedere, con la prima privatizzazione di Prodi nel 1997 centrata su un “nocciolo duro” guidato dalla Fiat di Gianni Agnelli, con meno dell’1%; con la successiva scalata, dopo un paio d’anni, dei “capitani coraggiosi” di D’Alema e la vendita, anche questa dopo due anni, alla Olimpia, a maggioranza Pirelli e con la partecipazione dei Benetton, di Banca Intesa e Unicredit. Due passaggi di mano in neppure quattro anni, segnati anche da accuse di irregolarità ed evasione fiscale. Un altro cambiamento arriva nel 2007 con l’uscita di Pirelli e l’entrata della spagnola Telefonica, con la creazione di quella Telco, Telefonica, Intesa, Generali e Mediobanca (anche i Benetton nel frattempo sono usciti) che durerà fino all’arrivo di Vivendi nel 2015. L’esito di queste successive entrate e uscite è stato il progressivo indebolimento del gruppo al di fuori dell’Italia e il suo grave indebitamento.
L’assenza di pensiero strategico da parte dei governi è evidente nella noncuranza con cui si è accettata la concorrente Telefonica come socio industriale di riferimento di Telecom. Dal punto di vista industriale avrebbe avuto senso indagare la possibilità di fusione, o collaborazione, tra i due gruppi, soprattutto prima che Telecom venisse indebolita rispetto agli spagnoli. Invece si è permesso che un concorrente condizionasse l’operato del management, cosa particolarmente evidente in Brasile, l’unico mercato al di fuori dell’Italia in cui Telecom ha un ruolo significativo. E proprio in Brasile si è conclusa la vendita della società telefonica di Vivendi agli spagnoli, che ha consentito lo scambio di quote in Telecom Italia tra Telefonica e i francesi di Bolloré.
Il dato più traumatico è che in tutti questi anni di pratico dominio straniero in Telecom, nessun governo ha seriamente pensato a riportare in mani pubbliche la rete telefonica, strategica e costruita a suo tempo con denaro pubblico. E ciò malgrado si continui a parlare di una possibile vendita del gruppo a Orange, l’ex Telecom France in cui è ancora presente in forze lo Stato francese.
Il problema è quindi del tutto politico ed è la politica che ha reso deboli e vulnerabili due gruppi che potrebbero essere invece molto più forti anche sul piano internazionale: Telecom e Mediaset. La strategia di Bolloré, al di là delle modalità, ha del tutto senso sotto il profilo industriale, ma il lato sorprendente è che la collaborazione, fino alla fusione, tra le due citate società era già stata ipotizzata durante la gestione in Telecom di Tronchetti Provera, una quindicina di anni fa. Al fallimento dell’ipotesi, che avrebbe costituito un forte gruppo attivo nelle telecomunicazioni, nei contenuti e nei media, contribuì anche l’avversione politica verso Berlusconi. Ora il destino dei due gruppi sembra essere completamente in mani francesi.
Anche nella vicenda Alitalia si può riscontrare la stessa assoluta mancanza di strategia e lo stesso connubio politica e capitani cosiddetti coraggiosi. Sergio Luciano, nel suo articolo sul Sussidiario sulla disastrosa situazione attuale della compagnia aerea, parla di “vischiosità normative, vecchi vizi sindacali, inquinamenti politici” che hanno impedito il risanamento di Alitalia anche ai nuovi soci di riferimento arabi. Eppure Alitalia aveva avuto la possibilità, analogamente a Telecom e Mediaset, di formare un gruppo di dimensioni internazionali. Alla fine degli anni ’90 si era presentata molto concreta la possibilità di fusione con Klm, anzi le trattative erano molto avanzate, ma poi tutto finì in nulla e alla fine Klm si è fusa con Air France, pur mantenendo la sua fisionomia nazionale. Una risposta concreta a tutte le discussioni sulla necessità, peraltro reale, di mantenere l’italianità di Alitalia. Dopo travagliati rapporti con la stessa Air France e l’intervento, ancor più travagliato, di investitori italiani, si è arrivati agli arabi, senza risolvere in nulla i problemi, gravi a livello gestionale, ma radicati anche in un’impostazione strategica non rispondente alla evoluzione del mercato.
Già, il mercato. Che non è solo un oggetto per disquisizioni accademiche o ideologiche, ma una realtà con cui fare i conti e in tutti i casi citati i conti non sono stati fatti o fatti sbagliati. Nel suo articolo, Luciano fa un parallelo tra la crisi Alitalia e quella di Mps, a dimostrazione che l’incapacità, o il rifiuto, di elaborare strategie ha coinvolto tre settori fondamentali per l’economia, come trasporti, telecomunicazioni e media, banche. E l’elenco potrebbe essere, purtroppo, ampliato.