Come vi ho detto ieri, la Cina ha ribadito la sua intenzione di aiutare l’Europa a sostenere il proprio debito. Al netto del fatto che è la quinta volta in un anno che da Pechino giungono rassicurazioni in tal senso, mai seguite dai fatti, e che le banche cinesi, al contrario, stanno scaricando le loro esposizioni sull’eurozona, qual è lo stato di salute del gigante asiatico? Già la scorsa settimana avevo parlato di dati tutt’altro che incoraggianti riguardo l’economia cinese, ma la messe di cattive notizie prosegue, quasi alluvionale.
La massa monetaria M1 cinese ha raggiunto il minimo da dieci anni a questa parte, il consumo cinese di energia elettrica è crollato del 7,5% in gennaio, anno su anno e tutte le volte che è avvenuto un crollo su base annuale del consumo di energia elettrica, si è registrata una diminuzione della produzione industriale cinese. Ricordate poi i dati sul Baltic Dry Index, ai minimi dai tempi della crisi Lehman Brothers e in grado di segnalare una crisi nera riguardo l’export e le spedizioni via mare (al netto della sovraccapacità di stiva creatasi per il boom di nuove navi tra il 2005 e il 2008)? Beh, c’è dell’altro.
La Lloyd’s List, indicatore specializzato nello shipping, ci dice chiaramente che il traffico container nel porto di Shanghai, il più grande del mondo, è sceso di 100mila unità a gennaio rispetto all’anno prima, un calo del 4%. I volumi, dal canto loro, sono scesi di oltre un milione di tonnellate. Certo, le festività per l’anno nuovo in Cina possono incidere minimamente su queste cifre, ma il rallentamento dell’operatività e il calo di volumi al porto di Shanghai vanno avanti da mesi. «Il mercato dello shipping cinese affronta sfide gravose e la situazione nel corso di quest’anno tenderà ad aggravarsi», conferma lo Shanghai International Shipping Institute. Ma qual è il settore che maggiormente ha colpito i volumi dell’hub portuale cinese? La rotta Asia-Europa. E i dati resi noti la scorsa settimana dal Fondo monetario internazionale parlano la lingua di «un pericolo chiaro e presente per la Cina che emana dall’Europa, un qualcosa che potrebbe erodere 4 punti percentuali di crescita, se la crisi dell’eurozona dovesse aggravarsi e culminare in una pesante recessione. Se questo scenario negativo dovesse tramutarsi in realtà, la Cina dovrebbe rispondere con l’adozione di un significativo pacchetto fiscale».
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Un calo della crescita globale dell’1,75% potrebbe incidere sul taglio della crescita cinese per più del doppio, a meno che Pechino non intervenga con passi decisi per controllare lo shock, a dimostrazione di quanto sia diventato distorto il modello economico cinese. Per il Fmi, «la Cina potrebbe essere altamente esposta alla situazione europea attraverso i suoi link commerciali», chiaro segnale di Washington a Pechino per ricordargli quanto abbia da perdere in caso l’Europa vada a zampe all’aria: messaggio sottinteso, preparatevi a stampare moneta per un eventuale super-fondo d’emergenza a nostra guida e gestione.
Al contempo, però, sempre il Fmi mette in guardia la Cina da tentazioni riguardo un nuovo blitz attraverso il sistema bancario o nuovi progetti infrastrutturali: «La Cina ha di fronte a sé ancora un periodo abbastanza lungo per digerire gli effetti collaterali della crescita del credito negli anni in cui nasceva la crisi globale. Un grosso shock esterno potrebbe quindi portare agli estremi questi rischi domestici». Ovvero, bolla bancaria e infrastrutturale pronta a scoppiare insieme all’eurozona. Anche perché il Fmi ha detto chiaramente che la Cina ha già portato il proprio debito ben oltre i limiti di sicurezza, visto che la ratio tra prestiti e Pil è raddoppiata giungendo al 200% negli ultimi cinque anni, un balzo in avanti molto maggiore di quello registrato negli Usa durante la bolla dei subprime.
Una situazione che si è riverberata nella proprietà, settore già esacerbato dai tassi d’interesse sui conti correnti che lo scorso anno hanno toccato il -3% in termini reali, fattispecie che ha spinto gli investitori verso hard assets. Il primo soggetto cinese nell’edilizia, China Vanke, ha registrato un calo di vendite immobiliari del 39% nel mese di gennaio, mentre la Guangzhou R&F addirittura del 57%. Dati che fanno vedere scuro al vice-presidente della Vanke, Mao Daqing, secondo cui «le cose saranno davvero difficili nel 2012: sarà un test per l’intera industria, visto che la battaglia dei prezzi combattuta prima di Natale non ha sortito l’effetto di bloccare il crollo delle vendite». Moody’s, per quanto le sue valutazioni siano credibili, ha avanzato dubbi sul fatto che i giganti delle costruzioni di Hong Kong riusciranno a rifinanziare il loro debito estero quest’anno, mentre per il Caixin Magazine il mercato della proprietà da «surriscaldato si è tramutato in polare».
Insomma, se servirà un stimolo per bloccare la bolla, per il Fmi le autorità cinesi dovranno ricorrere a un enorme deficit di budget che vada a colpire trasferimenti e benefit per i disoccupati. Addirittura, definendo «un pacchetto fiscale come la prima linea della difesa», il Fmi ha proposto alla Cina sussidi diretti per l’acquisto di elettrodomestici, una sorta di versione cinese del “cash-for-clunkers”, la nostra rottamazione per capirci ma legata all’efficienza dei consumi e alla riduzione dell’impatto ambientale. Insomma, la Cina farebbe meglio a salvare se stessa, prima di salvare l’eurozona. Sarà per questo che nel corso della sua visita a Washington, il vicepresidente cinese, Xi Jinping, ha parlato di «un nuovo storico inizio delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, un fiume inarrestabile che continua a scorrere».
Immagine molto poetica, che però contrasta con un dato incontrovertibile. Ovvero, la Cina insieme alla Russia, sta continuando a scaricare debito Usa. Mosca, anche a gennaio, ha venduto – siamo al quattordicesimo mese di fila – e ora le sue detenzioni sono pari a 88,4 miliardi di dollari, la metà dei 176 miliardi dell’ottobre 2010. Ma anche Pechino scarica, visto che nel solo mese di dicembre ha venduto 32 miliardi di debito statunitense, portando il totale ai minimi del 2010, 1100,7 miliardi di dollari. Sempre una cifra enorme, ma il segnale appare chiaro e apre, soprattutto, un interrogativo: cosa stanno comprando Cina e Russia con i dollari che non riciclano più in debito Usa? In parte oro (la Cina è diventata il primo mercato mondiale, superando anche l’aurea India), in parte riserve. Per cosa? Forse per farsi trovare pronte al grande botto. Quello in grado di scuotere dalle fondamenta gli equilibri geopolitici e geofinanziari, in attesa del voto presidenziale negli Stati Uniti. Maya a parte, il 2012 sarà l’anno delle grandi decisioni e dei grandi mutamenti.
P.S. Piccolo aggiornamento sulla Grecia. La teleconferenza di mercoledì ha rimandato ogni decisione all’Eurogruppo di lunedì prossimo. Però i leader hanno preannunciato, di fatto, il rinvio a dopo le elezioni di aprile del secondo pacchetto di salvataggio, prevedendo però un suo spacchettamento in modo da evitare la bancarotta del Paese. Ovvero, quasi certamente si sbloccheranno con urgenza i fondi necessari per onorare le scadenze obbligazionarie del 20 marzo, pari a 14,5 miliardi di euro, in modo che le banche e le assicurazioni europee non perdano soldi, poi Atene verrà abbandonata al suo destino, contando sulla prossima asta di liquidità della Bce per rinforzare i patrimoni degli istituti in vista del default.
Nelle sale trading, infatti, c’è la certezza di un piano studiato nei minimi dettagli e che si basa, come timing, su una certezza: le nazioni creditrici della Grecia, Germania in testa, stanno scommettendo sul fatto che la prossima asta Ltro della Bce, prevista per il 29 febbraio, fornirà sufficiente cash alle banche per creare cuscinetti di liquidità in vista del default e delle perdite connesse ai bonds. Tanto più che, a oggi, dei 110 miliardi di euro di aiuti contemplati dal primo piano di salvataggio greco, ne sono stati sborsati realmente solo 74, più di un terzo dei quali spesi per ripagare cedole obbligazionarie in scadenza. I rimanenti sono già stati congelati, visto che sarebbero stati sostituti dai 130 miliardi del secondo piano, oggi spacchettato e rinviato.
Insomma, la Germania vuole tenersi in tasca quei soldi e punta soltanto a tamponare la scadenza-monstre del 20 marzo, 14,5 miliardi di euro che il governo greco non ha e che di fatto tornerebbero nelle tasche dei paesi creditori, pronta cassa, attraverso banche e assicurazioni che riceverebbero il premio sui bonds: avendo però a disposizione sette giorni di moratoria sul pagamento, più il weekend, si può arrivare fino a fine mese senza il default ufficiale.
Proprio sicuri che, in un clima tale, Atene andrà davvero al voto ad aprile? Detto fatto, il ministro dell’Economia greco, Michalis Chryssohoidis, si oppone alle elezioni anticipate e chiede che il premier, Lucas Papademos, resti in carica fino al 2013: «Credo che le elezioni dovrebbero tenersi nel 2013, alla fine dell’attuale legislatura». Chryssohoidis ha sottolineato, poi, che questo è anche il punto di vista del suo partito, quello socialista. Un gioco molto pericoloso.