Il nuovo grande capo della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, contro il Premier italiano Matteo Renzi (e/o viceversa). Quasi nelle stesse ore, la Bundesbank e i suoi satelliti allo scoperto contro Mario Draghi, alla vigilia del cruciale consiglio Bce di oggi (e/o viceversa). I lettori del Sussidiario non potranno lamentarsi di non essere stati avvertiti per tempo – due mesi fa – di quanto si andava preparando. Ancora a fine estate – all’indomani dell’inusuale visita di Renzi a Draghi in vacanza in Umbria – un asse oggettivo fra l’ultra-tecnocrate “non italiano” dell’Eurotower (copyright Financial Times) e l’arrembante sindaco di Firenze trattato da intruso nella stanza dei bottoni dell’Europa sembrava ancora un’ipotesi quasi impronunciabile. Oggi – 6 novembre 2014 – la strana coppia italiana parla praticamente all’unisono contro il rischio di “suicidio” economico-finanziario dell’Unione (copyright Draghi) facendo valere il peso della politica, cioè quello di un Paese-fondatore dell’Europa postbellica e sua terza economia (copyright Renzi).
Il giornalismo – e il rispetto per i lettori del Sussidiario ci spinge ad arrivare subito al punto: se e quando – ma pare in un tempo non lontano – Giorgio Napolitano lascerà il Quirinale (rimpianto e con la gratitudine di tutti), Mario Draghi resta “l’italiano” più adatto e accreditato per reggere la carica di garanzia repubblicana di un Paese che – almeno ora – non sembra avere alternative a Matteo Renzi come capo dell’esecutivo: come baricentro politico di ogni sforzo di ripresa. Una ripresa che richiede “gioco pesante” sia sul fronte interno (completamente prosciugato di fiducia), sia soprattutto su quello esterno: dopo che proprio lo stress test della Bce sui sistemi bancari dell’eurozona ha confermato quanto poco neutra e tecnica sia la competizione fra i paesi membri di un’Europa sempre più affannata e divisa nella lunghissima exit dalla Grande Crisi.
Probabilmente non capiremo neppure oggi pomeriggio – dopo la conferenza stampa di Draghi – quanto attendibile fosse la “nota esclusiva” lanciata martedì dalla Reuters, a mercati europei ancora aperti: a ventilare una resa dei conti (forse definitiva) fra il capo della Buba – Jens Weidmann – e il presidente della Bce. La prassi vuole che a “scoprire un gioco” sia un avversario: e non sorprenderebbe che la City londinese abbia alzato il tiro contro i nemici tedeschi di ogni opzione di “Quantitative easing dell’euro” fra quelle che Draghi ha messo sul tavolo fin dal summit Bce-Fed di Jackson Hole a metà agosto.
Non è facile obiettare a chi sostiene che Draghi – sempre più “discepolo della Fed” nell’insistere sulla necessità di scosse, stimoli, iniezioni di liquidità per riaccendere la crescita in Europa – continui a dar credito oggettivo a quella finanza di mercato che dell’iperliquidità del dollaro ha certamente beneficiato, fors’anche oltre i limiti accettabili dei salvataggi di istituzioni too big too fail. È però altrettanto difficile negare che il famoso “whatever it takes” pronunciato da Draghi ormai due anni fa – a difesa dell’euro sotto pressione per la crisi greca, spagnola e anche per quella italiana – sia un passo politico: che stacca il super-governatore dalla sua terra ferma tecnocratica, ma lo libera anche da cliché che Draghi stesso sta dimostrando di saper superare.
Non c’è molta differenza – anzi, forse non ce n’è alcuna – fra il “faremo tutto il possibile” del banchiere centrale e quello – ripetuto svariate volte al giorno – dal premier italiano: “decrescita” e disoccupazione, del resto, non mordono solo in Italia. E nell’eterno duello fra economia e politica, in quello più recente fra mercati globali e sovranità nazionali, non scommetteremmo una vincita modesta ma sicura sulla Germania. I bookmakers certamente danno quote più sfidanti per Draghi e Renzi: ma la voglia di puntare su di loro – su entrambi assieme – è fortissima.