Ultima tappa della nostra piccola indagine su Florenskij e la musica sono le Quattro poesie su testi del capitano Lebjadkin op.146 per basso e orchestra di Dmitri Shostakovich, grandissimo compositore russo vissuto tra il 1906 e il 1975.
Emblema del tormentato rapporto tra gli artisti (veri) e il potere sovietico, il musicista ci fornisce un esempio di cosa significhi “dire il vero” in arte, secondo una concezione che Florenskij, uomo curioso di ogni cosa e desideroso di andare alla radice di qualsiasi fenomeno, naturale, artistico o spirituale (nella sua visione unitaria del sapere peraltro tale distinzione non ha molto senso), avrebbe condiviso.
La riflessione del pensatore da cui siamo partiti nel precedente articolo trovano ora un banco di prova del massimo interesse.
Il criterio estetico proposto (vera è l’arte ontologicamente densa) reggerà il confronto con una pagina intrisa di sarcasmo, di amarezza, di miseria? La sfida è certamente intrigante.
Rivolgiamoci dunque a Shostakovich e alla sua estrema stagione compositiva, dominata dai due poli del disincanto e della morte.
Le Quattro poesie su testi del capitano Lebjadkin (ultima composizione vocale dell’autore completata il 23 agosto 1974) sono evidentemente ispirate a “I Demoni”, il capolavoro di Dostoevskij in cui compare la rozza, degradata figura del capitano Lebjadkin, ubriacone e sfruttatore che, apparentemente essendo un carattere secondario, si pone come figura che porta alle estreme conseguenze il nichilismo (“da porci” diceva lo scrittore ispirandosi al vangelo di Luca) degli invasati che lo circondano.
Shostakovich pare assecondare tutto il grottesco che Dostoevskij concentra nella figura del depravato bevitore e così, nella prima poesia (L’amore del capitano Lebjadkin), attacca il delirante discorso su un triviale ritmo di valzer. La voce procede goffamente (la quadratura ritmica!) e i lazzi strumentali “commentano” ironicamente il testo (particolarmente gustoso è il parodistico “sipario” che troviamo a 0’59” prima della balbettante enunciazione della parola “aristocratico”) enfatizzandone l’atmosfera straniata.
L’amore è qui bestiale sensualità travestita da enfatico sentimentalismo (ma c’è poi molta differenza?) e il musicista non rinuncia all’intero repertorio dell’esaltazione operistica (addirittura ricorrendo a una citazione dalla Dama di Picche di Cajkovskij) ma, al fondo, porgendoci un calice che più amaro non potrebbe essere.
Nel dipingere con maestria (e partecipazione, aggiungiamo noi) l’abbrutimento di ogni nobiltà Shostakovich in realtà ci sta mostrando cosa l’uomo può diventare. La rozzezza (artisticamente impeccabile) del tessuto musicale ci ricorda però, per contrasto, cosa l’uomo non vuole diventare, cosa davvero significhino la grettezza e il cinismo che tramano le nostre giornate e ai quali l’autore (che non credeva in alcuna trascendenza) non sa (non può?) rassegnarsi.
Sembra anzi che in questa sorta di gara nello scavare nell’abisso della meschinità dell’uomo, il musicista voglia realmente toccare il fondo per vedere se al limite inferiore (almeno lì) non ci sia qualcosa che, come la bellezza della musica, possa divenire barlume di salvezza.
È una posizione che per molti versi può richiamare certi estremi raggiungimenti di Giovanni Testori (si pensi a "In exitu" ad esempio) e che viene ulteriormente approfondita nei successivi numeri della partitura.
I – L’amore del capitano Lebjadkin
Nella seconda poesia (Lo scarafaggio) il tono si fa quasi kafkiano. A parte l’evidente (quanto superficiale) similitudine tra il personaggio principale del componimento “poetico” e il protagonista de La metamorfosi dello scrittore praghese, è il surreale tono da parabola che colpisce per l’incongruo accostamento di elementi eterogenei.
È come se Shostakovich ci mostrasse (compenetrandosi perfettamente con l’intento di Dostoevskij) che una vita è “bestiale” (da insetto, appunto) se non c’è un principio unificante che la regge. Così le improvvise irruzioni di lacerti di dialogo ([II – 0’35”- 1’05”] “- Mio Dio, che è questo?”) che interrompono il grottesco e tagliente racconto “allegorico” sono tasselli che contribuiscono a creare quell’atmosfera livida che caratterizza l’intero movimento.
Anche qui l’irresistibile e amarissimo sarcasmo shostakoviciano si spinge molto al di là delle intenzioni dell’autore: la cupa, allucinata (e allucinante) visione del mondo che troviamo ne “Lo scarafaggio” è segnale quanto mai eloquente di cosa può essere il mondo quando ci si accontenta di brandelli di significato sparsi nel nulla del tempo.
Ancora una volta l’intento dichiaratamente provocatorio dell’autore lo porta a una posizione vertiginosa (di una vertigine talmente terrena da diventare metafisica) in cui il dito puntato verso la fogna vi si riflette e, specularmene, indica il cielo.
II – Lo scarafaggio
Il brano successivo (Il ballo di beneficenza della Governatoressa) si scaglia contro il capitale e contro l’uso insulso (e tutto sommato inutile) del potere. L’incipit musicale ha il tono solenne e ad un tempo sardonico dei movimenti di sinfonia in cui Shostakovich ritraeva la mostruosa maschera staliniana. Roboanti ottoni, imperiosi accordi, declamazione vocale enfatica, tutto sembra disegnare un universo dominato dall’arbitrio del potente. Tutto giusto, tutto coerente sennonché, poco prima della fine, la situazione cambia di segno e la grandeur si tramuta in farsa [III – 2’04] perché il potere mondano non dipende più da quello che l’uomo è capace di essere ma semplicemente da quello che possiede. Sono dunque le cose (il denaro in questo caso) a possedere l’uomo e non il contrario.
Il graffiante, caustico tratto del musicista ci mostra allora uno dei paradossi del suo (e del nostro) tempo, quello per cui l’individuo è ridotto a mera funzione (sociale, politica, economica ecc.) diventando così una sorta di ridicolo (e tragico) burattino che non ha più senso né dignità proprie.
III – Il ballo di beneficenza della Governatoressa
La quarta e ultima “poesia” non è direttamente recitata (nel testo dostoevskiano) dal sordido Capitano ma è certamente “degna” dell’autore degli altri componimenti.
Un solenne ribattuto degli archi apre la scena che, all’ingresso del canto, assume un tono di compunta quanto ironica ammirazione. Il disegno tematico della voce è chiaro, ben definito e ripetuto più volte (il testo è musicato in maniera praticamente strofica). La “nobile personalità” è evidentemente irrigidita nella sua (innaturale) posa “rivoluzionaria”, intenta com’è a “far crollare infin le chiese, le famiglie e i matrimoni, il vecchio mondo e i suoi mali”.
È un mondo bloccato (Stravinsky giustamente faceva notare che la “rivoluzione” è il moto di un corpo che parte da un punto per farvi ritorno dopo un percorso prefissato) in cui dominano i parolai, i tromboni, gli imbonitori che si nascondono dietro roboanti slogan per mascherare il nulla che hanno in realtà da comunicare.
Anche qui il feroce sarcasmo di Shostakovich mostra la disumanità di un mondo siffatto in un crescendo di risa e di orrore che sembra non dover mai aver fine.
IV – Una nobile personalità
In fin dei conti la “maledizione” del musicista russo è quella di avere uno sguardo lucidissimo sul male del mondo senza avere alcuna speranza nella possibilità di una redenzione. Quella shostakoviciana è una sorta di “teologia dell’abisso” in cui, come nel De profundis (titolo che ritroviamo peraltro in uno dei movimenti della desolata e sublime Quattordicesima sinfonia), l’uomo lotta per non annichilirsi in puro flatus vocis, per mantenere almeno quel barlume di “speranza contro ogni speranza” che sta alla radice di ogni operare umano, specie di quello artistico.
È allora, metaforicamente, ai piedi della croce che l’agnostico Shostakovich e il teologo Florenskij si incontrano, l’uno ignaro cercatore e l’altro umile portatore di quella Verità che, sola, può abbracciare tutta la miseria di questo mondo innalzandola, anche nell’ultimo istante della vita, anche nella più abietta delle situazioni (si pensi ancora al Riboldi Gino di Testori che proprio all’estremo limite della vita, quando sta morendo di overdose in un fetido cesso della Stazione Centrale di Milano, sente la mano di Cristo che gli afferra i capelli e lo rialza, rialza lui, un reietto). C’è forse speranza più grande di questa?
I – L’amore del capitano Lebjadkin
Di amore ardente una bomba,
esplose in petto a Ignat,
e pianse ancora dal gran dolore,
di Sebastopoli il mutilato.
«Anche se a Sebastopoli non vi sono stato e non sono neanche mutilato, tuttavia che rime!"
«Ecco sul cavallo la stella,
fra le altre amazzoni nel girotondo,
dal cavallo mi sorride la bella,
aristocraticissima pulzella.
"Alla perfezione della fanciulla Tusina
Graziosa signorina
Elizaveta Nikolaevna!
O quale beltà
Elizaveta Tušina,
quando con il parente vola quale amazzone alla briglia,
e il ricciol suo per i venti si scompiglia,
o quando con la madre in chiesa si inchina fino a terra,
e il suo volto un devoto rossore afferra.
Allora matrimoniali legittimi piaceri vo’ vagheggiando
e dietro a lei insieme con la madre una lacrima io mando.
Nel caso che ella si rompa una gamba!
La beltà della beltà si ruppe un arto
e si è fatta più interessante,
e diventò doppiamente innamorato
il già folle amante
Scritto da ignorante durante una disputa.
II – Lo scarafaggio
C’era un dì uno scarafaggio
scarafaggio egli era nato,
poveretto in un bicchier
moscofagico era caduto…
– Mio Dio, che è questo?
– Cioè quando d’estate
un bicchiere si riempie di mosche,
avviene la moscofagia, lo capisce anche uno sciocco,
non interrompete, vedrete,
vedrete…
(girandosi verso il Direttore).
Mi scusi, ricominciamo…
C’era un dì uno scarafaggio
scarafaggio egli era nato,
poveretto in un bicchier
moscofagico era caduto…»
Tanto spazio egli occupò
che le mosche brontolando,
"Troppo pieno è qui il bicchiere!"
volte a Giove van gridando.
Ancor gridano tutte in coro
quando viene Nikiforo
nobilissimo vegliardo…
Qui non ho ancora finito, ma non importa, lo dirò in prosa!
Nikiforo prende il bicchiere e nonostante le grida rovescia in una tinozza tutta la commedia e le mosche e lo scarafaggio, cosa che bisognava fare da un pezzo. Ma notate, notate, signora, lo scarafaggio non si
lamenta! lo sca-ra-fa-ggio non si lamenta!.
Per quanto riguarda Nikiforo,
egli rappresenta la natura
III – Il ballo di beneficenza della Governatoressa
Salve, salve, governante!
Su rallegrati e trionfa,
Reazionaria o George Sand,
tu comunque ora esulta!
Ai mocciosi tu insegni
In francese l’abbiccì,
sempre pronta ad ammiccare
che almeno il sacrista dica sì.
Ma ai nostri grandi tempi
Neanche lui ti vuol più,
O hai "questi" mia signora,
O ritorni all’abbiccì.
Ma ormai che banchettando,
Si è raccolto il capitale
Noi la dote qui danzando,
Ti inviam da queste sale,
Reazionaria o George Sand
Tu comunque ora esulta.
Con la dote, o governante,
tutto spezza e sii trionfante!
IV – Una Nobile Personalità
D’alta stirpe egli non era,
egli crebbe tra i suoi pari,
poi ferito dai rancori,
dello zar e dei signori,
ai supplizi e ai tormenti,
alla frusta si votava,
predicando alle genti
fratellanza e libertà.
Sollevando la rivolta,
poi fuggiva in altri lidi,
dalle carceri imperiali,
e dal boia e il suo staffile.
Mentre il popolo ormai pronto,
a ribellarsi alla sua sorte,
da Smolensk fino a Taškent,
con ansia aspettava lo studente.
L’aspettavan proprio tutti,
per seguirlo tutti uniti,
per por fine ai gran signori,
per por fine al loro zar,
far di tutti le tenute,
far crollare infin le chiese,
le famiglie e i matrimoni,
il vecchio mondo e i suoi mali.
Olà!
il vecchio mondo e i suoi mali.
Olà!