La prima copertina 2011 del Financial Times Weekend non si è persa in divagazioni tardo-festive. Ha invece ospitato un attacco – “alto” ma duro – contro il “giornalismo 2.0” (o forse “2.1”): quello tumultuosamente salito alla ribalta negli ultimi dodici mesi sulla ali di Wikileaks, quello finito con Julian Assange tra i candidati per la copertina di Time come “Uomo dell’anno”.
Ma non solo: anche quello impersonato dal media-mogul australiano Rupert Murdoch, la cui Fox News ha manovrato direttamente raduni anti-governativi a Washington. O il giornalismo d’assalto che il Daily Telegraph ha scatenato contro Vince Cable, il ministro dell’Industria del governo Cameron. Non erano “escort” le due giovani reporter che gli hanno carpito dichiarazioni imbarazzanti per la nuova coalizione liberal-conservatrice, ma si sono comunque travestite da militanti di partito. Gli hanno comunque fatto dire di essere “in guerra” contro Murdoch, proprio quando il Business Secretary si accinge a pronunciare l’ultima parola sull’offerta di News Corp (la holding di Murdoch) destinata a consolidare il controllo su BSkyB, potente braccio nella tv satellitare.
«Forme di giornalismo innovative e via via più aggressive sono determinate a tenere i politici sotto scacco e sembrano votate alla trasparenza totale. Ma ciò è realmente nell’interesse pubblico?». Se lo chiede con cipiglio accademico un lungo saggio firmato da John Lloyd, guru dell’ortodossia mediologica anglosassone come direttore della scuola di giornalismo di Oxford, intitolata al fondatore della Reuters. Lloyd, a lungo corrispondente da Mosca di FT è la sintesi perfetta di ciò che – tra Britannia e America – è da sempre “libera stampa”: impasto inimitabile di politica e affari, “intelligence” e opinione pubblica, “interessi del paese” e scambi cosmopoliti, conservazione e progresso, pragmatismo culturale e gelosa custodia dei valori del “liberalism”.
Ora questa tradizione – orgogliosa e consapevole di una leadership ancora consolidata nonostante le ultime burrasche economiche – s’interroga, anzi: interroga. Anzi, sentenzia: «Si è giunti a definire il pubblico interesse come ciò che può essere rivelato per danneggiare figure pubbliche». E la riproposizione del classico “distinguo” tra “interesse pubblico” e “interesse del pubblico” rafforza ulteriormente il giudizio critico su un anno per molti versi paradossale: un 2010 nel quale, scrive Lloyd, «il giornalismo occidentale, che si rappresenta spesso come insidiato dal declino, ha molto incrementato il suo potere».
Ma il “super-giornalismo” – che sembra avere trovato in Assange il suo Nietzsche – a Oxford e nei dintorni della City di Londra non piace affatto. È solo in atto una “power struggle”, una “lotta di potere”, annuncia il titolo della cover: fin troppo secco e crudo per l’apertura di una sezione che s’intitola comunque “Life & Arts”. Ma tant’è, ammette Lloyd con l’aria di accettare la sfida, ma soprattutto di avvertire per tempo tutti i naviganti di questo nuovo anno periglioso tra cancellerie, mercati, teatri di guerra.
Assange, il Geronimo che ha violato il Fort Apache del Dipartimento di Stato americano e raccontato di tutto su un po’ su tutti (dalla “sporca guerra” dell’Iraq allo “sporco commercio” del gas russo e del petrolio libico, fino alla “sporca finanza” di Wall Street). Incarcerato (dalla Gran Bretagna) è già, “in nuce”, un Mandela del XXI secolo: un pioniere-martire di una possibile ultra-democrazia digitale. Un beniamino del ceto medio globale: che pure ha i suoi soldi in gestione dagli asset manager della City, la sua sicurezza presidiata dalla Nato (o dalla Cia) e le sue libertà presidiate da innumerevoli istituzioni politiche e amministrative, nazionali o sovrannazionali, finalizzate comunque a dare gradi di “ordine”, di regole, di segreto e di finzione.
È a questo pubblico che FT rivolge una – non scontata – rampogna di inizio anno: non è (mai) tempo – o uomo occidentale – di deliri sulla “trasparenza assoluta”, tanto meno in questa strana globalità dove tutto sembra diventato uguale (dall’America di Obama alla Russia di Putin, dall’Europa della Merkel alla Cina dei nuovi mandarini), ma non è – mai – vero.
Già che c’è, FT – sì, quello che assieme al cugino Economist non ne ha mai perdonata una a Silvio Berlusconi – se la prende con un concorrente di casa: come si permette il Telegraph di fare scherzi pericolosi a un ministro di sua maestà? A furia di rovesciare cassetti in pubblico e alla rinfusa, a furia di sfondare porte e strappare sipari, cosa resterà? In ogni caso: «Nimby! Not in my back yard». Non a Downing Street, non a casa nostra, non di questi tempi. Non in Gran Bretagna, dove da cinque secoli tutti (corsari caraibici e alpinisti himalayani, archeologi in Mesopotamia, geografi alla ricerca delle sorgenti del Nilo, scienziati alle Galapagos, laureati a Oxbridge, infatuati della Russia sovietica) sanno sempre di lavorare per quell’eterna Compagnia delle Indie che ha il suo quartier generale a Londra.
Lavorano per raccogliere e valorizzare (non per distruggere, dilapidare o spiattellare per gioco in Rete) informazioni strategiche di ogni tipo, utili per la diplomazia e gli affari: necessarie per mantenere Londra al centro di un impero, di un Commonwealth, di un’area di influenza comunque la si voglia intendere o chiamare. Ma oggi, “interessi inglese” significa soprattutto resa dei conti con “lo Squalo” Murdoch.
Il tycoon australiano è anzitutto l’editore del Wall Street Journal: concorrente diretto globale del Financial Times, oltre che del Times e di tabloid. E FT non ha certo perso occasione per alzare un po’ di polvere: Murdoch – in controluce – resta un outsider sovversivo non diverso da Assange. Resta un pericoloso e aggressivo “Grande Fratello”, manipolatore di mercati liberi ma ordinati, di democrazie altrettanto aperte ma non proprio a tutti. Soprattutto quando – è cronaca di questi giorni – sta per prendere definitivo possesso di BSkyB, il potente braccio operativo del gruppo nella tv satellitare.
L’Antitrust Ue non ha trovato impedimenti e ha autorizzato l’offerta, ma a Londra non sembrano di quest’idea. Non è evidentemente (e comprensibilmente) d’accordo FT, anche se rimane la gazzetta della finanza globale di mercato. E non è d’accordo il ministro-chiave del governo liberal-conservatore della più antica democrazia di mercato del mondo. La partita, in ogni caso, è ancora all’inizio. Ma Oxford, come avviene da secoli, si è schierata.
Napoleone, Hitler, Saddam e tutti i nemici veri o immaginari di James Bond se ne restino al di là della Manica, dell’Oceano Atlantico o di quello Indiano. All’Europa e a tutte le classi dirigenti vecchie e nuove la domanda di sempre: voi da che parte state?