Due sono le questioni attorno alle quali ruota, fondamentalmente, L’altro illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità: quella relativa alla verità nel dibattito pubblico e quella relativa all’identità dell’Occidente. E’ noto che nella cultura odierna, specie in quella più incline a presentarsi come “illuminista” e “illuminata”, pochi concetti sono tanto discreditati quanto il concetto di verità, considerato superato, se non addirittura pericoloso per il pluralismo, la libertà e le istituzioni liberaldemocratiche. Nel libro si tenta di ricordare invece come Illuminismo e cultura politica moderna siano figli principalmente proprio di una ragione appassionata alla verità.
Per il fatto di vivere in un contesto socio-culturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in ordine a ciò che è vero e giusto e di prendere quindi le nostre decisioni politiche a maggioranza, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra; siamo diventati relativisti, con la convinzione che questo fosse il modo migliore per essere tolleranti. Ai credenti si chiede non a caso di vivere “come se Dio non ci fosse”.
Ma questo significa soltanto mettere una cattiva filosofia alla base di una pratica eccellente, quale è quella democratica, che, alla lunga, potrebbe esserne svuotata. Le nostre decisioni politiche vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell’uomo e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata presa con il consenso della maggioranza che una decisione giusta imposta con la forza.
Questo almeno dovrebbe essere ben chiaro a tutti coloro che hanno imparato a mettere la libertà e la dignità degli uomini al primo posto. Del resto una verità che sia incapace di sopportare che non la si riconosca, che la si offenda, diciamo pure che la si crocifigga, non sarebbe di una specie sufficientemente robusta. Altro che relativismo o “vivere come se Dio non ci fosse”.
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Il recupero del pathos illuministico (e religioso) per la verità, una verità che in ultimo ci si rivela, della quale non siamo padroni, che possiamo accettare o non accettare, ma che rimane comunque indisponibile, costituisce, a mio modo di vedere, la migliore strategia per sottrarre il dibattito pubblico tra credenti e non credenti alla sua deriva di incomunicabilità e per ridare il giusto vigore al pluralismo, alla libertà, alla tolleranza e alla stessa laicità.
Tanto più le questioni sono spinose e tanto più occorre ragionarci sopra con il rispetto di tutti, spregiudicatezza, ma anche con la fiducia che i buoni argomenti prevalgano su quelli meno buoni. Questa dovrebbe essere la consapevolezza di un Illuminismo che riesca a far tesoro della secolarizzazione, mettendosi nel contempo al riparo dalla sua deriva più estrema: il nichilismo.
Altro tema rilevante del libro è quello dell’identità. Un luogo comune abbastanza diffuso vuole che il nostro mondo occidentale sia ormai avviato sulla strada del relativismo multiculturalista, nella convinzione che questo sia il solo modo per fronteggiare le sfide della globalizzazione e il confronto con culture diverse dalla nostra, senza cedere al fanatismo e alla violenza.
Nel libro si cerca di mostrare che si tratta di un gravissimo errore, il quale, oltre a danneggiare noi occidentali, danneggerà anche gli “altri”, alimentando proprio quel fanatismo che vorremmo evitare. Non è facendoci “nessuno” che si favorisce l’incontro e il dialogo tra culture differenti e spesso ostili. Ma l’errore, almeno secondo me, si spiega con la rimozione che abbiamo operato della dimensione universalistica che sta dietro i grandi vessilli dell’identità occidentale: ragione, verità, libertà, giustizia, dignità dell’uomo. Tolta questa dimensione universalistica, il confronto razionale e interculturale si riduce a mero “gioco linguistico”, un artificio verbale per dire semplicemente che non sappiamo più che pesci prendere, sempre più sospesi sul baratro dell’ideologia.