Le evoluzioni dei mercati finanziari dell’ultima settimana si sono guadagnate regolarmente le prime pagine dei giornali; nella settimana appena conclusa l’indice di Milano ha perso il 4,3% portando il conto del 2016 a -23%. Non sono mancati nemmeno i rimbalzi che, nella giornata di mercoledì, avevano fatto sperare in un’inversione di tendenza e che ieri hanno parzialmente ridotto il ribasso. Per cercare di capire cosa stia succedendo bisogna innanzitutto inquadrare bene i movimenti a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni.
Un colpevole di turno viene di volta in volta nominato per spiegare la performance dell’ultima giornata: il prezzo del petrolio, le banche italiane, le banche europee, lo “spread”, la Fed, l’economia americana. la Cina, ecc. La confusione che si genera rincorrendo l’ultimo colpevole in ordine temporale e facendone il capro espiatorio non aiuta.
La situazione finanziaria che si presenta agli occhi di un osservatore a metà febbraio ha almeno due caratteristiche impossibili da non rilevare. La prima è che la “borsa” è sostanzialmente irriconoscibile rispetto alla fotografia di appena due mesi fa. Lo scenario che i mercati sposavano fino all’autunno del 2015 in questo momento sembra essere stato abbandonato completamente. In particolare, ci si attendeva che l’Europa continuasse, seppur lentamente, l’uscita dalla crisi supportata dalla Bce e che l’economia americana continuasse la fase espansiva; ci si attendeva anche un graduale recupero del prezzo del petrolio e delle materie prime. Le criticità dell’economia europea e del suo sistema finanziario in un contesto già difficile per il rallentamento cinese e per il crollo delle materie prime hanno messo in discussione le poche certezze dei mercati lasciando senza risposta le domande su quale fosse il “nuovo” scenario.
La seconda constatazione è che diversi indicatori finanziari, oltre che il “sentiment” degli investitori, ricordano periodi di fortissimo stress finanziario come quello seguito al fallimento di Lehman Brothers. Il prezzo del petrolio ha toccato livelli inferiori ai minimi di marzo 2009. Le performance azionarie di molte banche europee dal 1 gennaio 2016 sono peggiori di quelle del periodo corrispondente del 2008.
Il paragone con il 2008 non è una “sparata” di qualche cultore di fanta-finanza; in una ricerca pubblicata qualche giorno fa da Jp Morgan si sosteneva che l’effetto combinato dei bassi prezzi delle materie prime e il dollaro forte con il rallentamento cinese fosse comparabile con la crisi del 2008/2009. Oggi come sei anni fa le imprese non riescono a vedere le avvisaglie di una crisi che parte dai mercati finanziari. Ci sono alcune differenze rispetto al 2008; le banche centrali sanno che si deve contenere per tempo la volatilità dei mercati. Allo stesso tempo molte banche centrali, la Fed e quella del Giappone, hanno già dato tutto o quasi quello che potevano dare, mentre la Bce, su cui i mercati contavano e speravano, è limitata fortemente dalla Germania. In molte economie dell’area euro poi, per esempio l’Italia e tutto il sud Europa, tutti gli indicatori economici sono peggiori rispetto al 2008.
Se la “finzione” a cui si era deciso di credere qualche mese fa viene meno con dati di crescita modesti e se i mercati finanziari invece di essere “calmati” diventano volatili perché parti importanti del sistema bancario europeo cadono vittime di una lotta tutta interna all’Europa e se tutto questo avviene in un normale rallentamento economico in America e in uno meno normale in Cina e nei Paesi produttori di materie prime, allora si aprono scenari preoccupanti. Il malato del mondo degli ultimi sette anni, l’Europa, non sembra neanche lontanamente vicino ad aver trovato una soluzione come si vede chiaramente da quanto sta avvenendo in Grecia; l’impatto sull’economia globale dell’Europa è rilevantissimo e, nel suo insieme, comparabile a quello degli Stati Uniti che, tra l’altro, l’austerity non sanno neanche cosa sia.
Quanto accaduto in Europa nelle ultime settimane è il colpo finale a un equilibrio molto fragile e precario e non c’è soluzione nel breve che non parta dall’Europa e che nel breve metta almeno al riparo banche e mercati dalla speculazione. Per la crescita vera invece ci vuole molto altro e non si può essere particolarmente ottimisti se la ricetta dell’austerity continua a essere somministrata anche a economie in ginocchio come successo al Portogallo settimana scorsa. L’Italia invece ha molte ragioni nel dibattito europeo, ma pochi argomenti veri con un complesso di riforme deludente, errori a ripetizione sul sistema bancario e su altri pezzi del sistema industriale, oltre a essere incredibilmente assorbita, in questa fase economico-finanziaria paurosa, dal ddl Cirinnà.