«D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’è in tutte le camere e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo. E dalla prima pagina giunsi all’ultima – lo ricordo bene – quasi difendendomi, ma con gioia, dal clamore della città in festa. Alla fine, deponendo il libro scoprii che, fra il primo brusio e le ultime campane che salutavano la partenza del Papa pellegrino, avevo letto intero quel duro ma anche tenero, così ebraico e iracondo testo che è appunto quello di Matteo. L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore». Ecco come Pier Paolo Pasolini descrive “quel” suo incontro con il Vangelo secondo Matteo il 4 ottobre 1962, festività di san Francesco, nella camera d’albergo di una Assisi in festa per la visita di Papa Giovanni XXIII.
Vi era giunto su invito di don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana, il quale, dopo poche settimane, si sentì rivolgere dall’intellettuale una sorprendente proposta: «Io non credo in Dio. Però, di un fatto devo tener conto: la lettura del Vangelo di Matteo mi ha veramente sconvolto. E c’è un altro fatto: che non posso continuare a vivere senza farne una trascrizione cinematografica. Voglio farne un film, con il vostro aiuto». Così, undici mesi esatti dopo quel giorno di ottobre, il 4 settembre 1964, Il Vangelo secondo Matteo – con la dedica «alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII» – fece la sua apparizione alla XXV edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ricevette il Premio speciale della giuria (il Leone d’oro andò a Deserto rosso di Michelangelo Antonioni) e quello dell’Office Catholique International du Cinéma (OCIC) «per la migliore ispirazione di valori morali e cristiani».
In Empirismo eretico (1972), raccolta di saggi di Pasolini su lingua, letteratura e cinema, egli afferma che «[a]l fondo sta dunque quel mio amore, già più volte impudicamente definito, per la realtà», una sorta di punto di partenza per tutta la sua opera letteraria e cinematografica. In un’altra circostanza ricorda come «[h]o detto più volte che ho una visione religiosa del mondo e quando dico una visione religiosa di cose e personaggi, voglio dire che il mio rapporto con la realtà ha sempre questa tensione». Attraversiamo anche Il Vangelo secondo Matteo alla luce di questa affermazione e vediamo come l’umanità espressa dai volti dei contadini del Meridione che recitano come attori e comparse nel film e colta da Pasolini nello splendido bianco e nero fotografato da Tonino Delli Colli è la stessa dei personaggi usciti dai pennelli di Giotto e Masaccio («i pittori che io amo di più» [in] «questa mia iniziale passione pittorica trecentesca che ha l’uomo al centro di ogni prospettiva»).
E non è solo questione di volti, fotografia e iconografia. La figura di Cristo, gli episodi evangelici e i loro insegnamenti arrivano in modo diretto in platea non solo per la loro naturale forza e incisività ma anche per le scelte di ripresa dell’autore, che volentieri ci mette nella condizione di seguire gli eventi in soggettiva. Pensiamo alla sequenza del “Discorso della montagna”, con i primi piani di Cristo che guarda direttamente in macchina da presa, ma anche ai due processi a Gesù nel palazzo di Caifa e in quello di Pilato, che viviamo da veri e propri spettatori (come indicato dal sovrapporsi delle teste degli astanti nello spazio inquadrato), quasi fossimo pure noi “testimoni” del fatto. E gli inserti con il dettaglio degli occhi di Giovanni sono un chiaro rimando a questa indiscutibile “natura” dei Vangeli: sempre Pasolini afferma infatti che «[h]o dovuto narrare il Vangelo attraverso gli occhi di qualcun altro che non sono io».
C’è infine un aneddoto legato alla lavorazione del film, riportato dallo scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami, allievo di Pasolini a Ciampino durante i tre anni di scuola media: «Quando decise di passare al cinema, lo seguii come “assistente volontario” ne Il Vangelo secondo Matteo: in pratica ero quello che fermava il traffico per la strada durante le riprese. Mi ricordo che mi scappò un pullman mentre giravamo a Matera la crocifissione di Cristo. Se si va a vedere il film, si vede che passa sullo sfondo… Pasolini, dopo un attimo di esitazione, mi disse: “In fondo questo film io lo faccio sull’oggi, non sull’epoca di Cristo… E allora lasciamolo, che ci sta pure bene”. E infatti c’è rimasto».
Come ha ricordato di recente Enrique Irazoqui – diciannovenne membro del sindacato universitario clandestino antifranchista di Barcellona, di passaggio a Roma quando il regista gli propose il ruolo di Gesù e che si dice tutt’ora «agnostico» – rivedersi «ogni volta è uno choc. Per Pier Paolo il Vangelo era la bellezza assoluta. E il solo pensiero di aver dato il mio volto a quella bellezza senza aggettivi mi riempie di stupore». Lo sguardo “ferito” di un poeta dietro la macchina da presa.
(Leonardo Locatelli)