Doveva essere la direzione che avrebbe messo in crisi la leadership di Matteo Renzi; è finita invece che a spaccarsi è stata la minoranza. Al momento di votare, la mozione del segretario ha preso l’80 per cento dei consensi (130 su 161), mentre il 20 per cento che gli si oppone si è frazionato tra astenuti (11) e contrari (20). Durante il dibattito D’Alema e Bersani hanno fatto fuoco e fiamme, attaccando direttamente Renzi e lasciando presagire spaccature quasi insanabili. Invece ha fatto quasi tenerezza Davide Zoggia, uno dei leader della minoranza, che ha preso la parola dopo la replica del segretario. Non ha nemmeno avuto il fegato di proporre una mozione alternativa, né di esprimersi sul testo della maggioranza. Ha viceversa chiesto di poterlo votare separatamente. Ha detto di essere in disaccordo soltanto su «alcune parole» del punto 4 della mozione, quella che manda in pensione l’articolo 18.
Tutta qui l’opposizione a Renzi, nel dissenso su alcune parole? Tanto rumore per nulla, in definitiva? È davvero così in discesa la strada per Renzi nel riformare il mercato del lavoro? L’impressione è che le cose non andranno tanto lisce, anche se il premier è stato abile. Ha messo in campo una doppia mediazione: da una parte si è detto pronto a ricevere i sindacati, dall’altro ha tentato di trovare un punto di contatto con la minoranza su un testo comune. La manovra non è andata a segno e Renzi ha tirato dritto. Ha fatto approvare il testo che demolisce l’articolo 18 sibilando alla minoranza che in Parlamento il partito dovrà esprimersi compatto.
Questa mano ferma è stata anche accompagnata da un cambio di registro dialettico. Renzi è stato meno drastico che nelle interviste degli ultimi giorni, ha smorzato i toni più accesi, anche se ha rimproverato a D’Alema di non aver fatto la riforma del lavoro quando l’economia andava bene. D’Alema è apparso come un rancoroso in cerca di rivincita. Bersani si è sentito vittima del «metodo Boffo», coperto di insulti per aver espresso un parere non allineato. Sembrava una questione di «bon ton», la sua, non un confronto politico.
Eppure la minoranza del Pd qualche buona ragione ce l’ha. Renzi non ha spiegato dove andrà a prendere i soldi per i nuovi sussidi a precari e disoccupati. Non ha detto se prenderà in considerazione oppure no gli emendamenti dei 40 senatori “dissidenti”. Né ha chiarito se l’eventuale trattativa con i sindacati sarà un dialogo reale o, come è probabile, soltanto un «pro forma»: già questa mattina il gruppo Pd al Senato si riunisce per definire la linea da tenere in aula, quindi il tempo per le mediazioni è molto risicato.
Renzi stesso ha chiarito il vero obiettivo di questa riforma: i voti degli imprenditori delusi da Berlusconi che la sinistra ha sempre spaventato. Un calcolo elettorale, insomma. Se si voterà in primavera, magari la riforma non sarà ancor approvata ma il segretario Pd si potrà presentare come il nuovo amico delle partite Iva, dei datori di lavoro, che il maggior partito della sinistra non considera più padroni e quindi nemici.
La rottura nel Pd potrebbe perciò essere soltanto rinviata al vero momento della verità. Che non è il dibattito al Nazareno, ma il prossimo voto parlamentare sul Jobs Act. E alle Camere la pattuglia dei fedelissimi di Bersani, D’Alema, Damiano, Cuperlo eccetera, è più consistente che nella direzione del partito.