Mario Draghi “non crede di avere il profilo giusto per la presidenza della Repubblica italiana” (retroscena di Repubblica, poco dopo il preannuncio di dimissioni da parte di Giorgio Napolitano). Draghi “non risulta sia disponibile” (colloquio di Silvio Berlusconi con il Corriere della Sera sabato scorso). Draghi tarda a confermare l’attesa audizione davanti al Parlamento italiano, programmata per l’11 dicembre: sta valutando questioni di opportunità – ha fatto sapere il suo entourage – legate proprio al delicato passaggio al Quirinale.
È pur vero che il presidente della Bce ha a che fare con impegni “tremendous”, sintetizzerebbe la stampa anglofona. La scadenza di giovedì 4 dicembre (consiglio generale all’Eurotower) preme assai più di quella del 20 gennaio: possibile inizio delle votazioni a Camere unite per la successione a Napolitano. Tuttavia “Draghi c’è”, sintetizza il giornalista italiano: è il convitato di pietra – e forse di più – di ogni confronto fra addetti ai lavori quirinalizi, politici o diplomatici esteri, banchieri o giornalisti che siano. E da settimane, su queste pagine, proponiamo uno schema interpretativo che lega i due passaggi: la resa dei conti al vertice Bce sul “quantitative easing dell’euro” e l’avvio sostanziale della “Terza Repubblica” in Italia.
L’escalation della pressione di Draghi a favore di una politica monetaria espansionistica – che non escluda neppure l’acquisto di titoli governativi – non accenna a fermarsi. In settimana in Finlandia (il Paese del commissario “falco” ai conti pubblici Ue Jyrki Katainen) Draghi ha parlato due volte in una sola giornata. Ma la Germania – riferisce il Wall Street Journal dopo un colloquio con Sabine Lautenschlager. membro tedesco dell’esecutivo Bce – non molla: la tecnocrazia tedesca raccolta attorno alla Bundesbank non segue neppure di un metro le cautissime aperture politiche del cancelliere Angela Merkel o del ministro delle Finanze Wolfgang Schauble.
Nelle ultime settimane abbiamo già ipotizzato che la semplice attesa mediatica di una possibile chiamata al Quirinale potesse agevolare Draghi nella sua confrontation con i banchieri del Nord: che l’eventualità di una convergenza unanime delle forze politiche italiane sul prestigio del presidente Bce costituisse di per sé una “uscita di sicurezza” capace di dare a Draghi più forza contrattuale. Cosa accadrebbe se – a partita Bce non risolta – l’Italia di Matteo Renzi (e di Silvio Berlusconi….) consegnasse una cambiale in bianco sul Quirinale?
Il banchiere italiano porrebbe i paesi dell’eurozona (Germania in testa) di fronte a un dilemma. Potrebbe “accettare le sue dimissioni”: lasciarlo tornare a Roma di fatto come nuovo leader di una “opposizione responsabile” al rigorismo assoluto nell’Ue, sia sul piano monetario che su quello fiscale. E una volta partito Draghi, la sostituzione a Francoforte si annuncerebbe ancor più complicata di quella di Napolitano al Quirinale e potrebbe innescare dinamiche ancor più dirompenti di quelle provocate del caso Juncker. L’alternativa sarebbe quella di chiedere a Draghi di non rispondere alla chiamata istituzionale del suo Paese, ma ciò equivarrebbe a una sorta di “conferma di mid-term”: difficile che dopo un simile chiarimento la Buba possa continuare a frenare la strategia si stimoli monetari e creditizi delineata dal banchiere italiano. Molto più facile per Draghi – in questi giorni cruciali di scacchi e poker – minacciare di andarsene: di piantare tutti in asso, lui che due anni ha pronunciato il “whatever it takes” di cui tuttora si fidano i mercati finanziari globali sulla zona euro.
(Non sorprende affatto che la prima mossa al tavolo del Quirinale l’abbia fatta il Premier che, nel 2005, accettò senza discutere la candidatura di Draghi alla Banca d’Italia).